(Federica Cannas) Cosa accade quando il mondo si volta dall’altra parte? Quando, di fronte al dolore più atroce, alla distruzione e alla morte, scegliamo di restare in silenzio? Gaza, anche alla luce dell’ultima tregua, resta il riflesso contemporaneo di Guernica. Una terra devastata, una popolazione assediata, un grido di aiuto rimasto inascoltato. La tregua non ha cancellato il passato recente, fatto di distruzione e morte, né il silenzio che l’ha accompagnato. Un silenzio che continua a risuonare, amplificando l’indifferenza globale.
Proprio come nel 1937, quando il bombardamento nazista sulla cittadina basca di Guernica scosse il mondo, Gaza è divenuta simbolo della brutalità della guerra. Case, ospedali e scuole sono stati colpiti, una popolazione inerme intrappolata, incapace di fuggire.
Il mondo, tuttavia, è rimasto a osservare distrattamente, paralizzato dalla sua stessa ipocrisia. Israele ha continuato a esercitare una forza sproporzionata, giustificata da alleati potenti, mentre l’indifferenza ha fatto il resto. Eppure, come possiamo ignorare ciò che è accaduto, sapendo che dietro ogni attacco c’è una responsabilità chiara?
Il parallelo con Guernica non è solo simbolico. Nel 1937, l’indignazione globale per la distruzione della cittadina basca si diffuse rapidamente. Ma quella stessa indignazione, oggi, appare selettiva e affievolita, incapace di affrontare con onestà il ruolo di Israele nel perpetuare una violenza sistematica contro i palestinesi. Gaza non è solo vittima di un conflitto. È il risultato di decenni e decenni di occupazione, oppressione e politiche che hanno progressivamente privato i palestinesi di tutti i loro diritti.
Proprio come il dipinto di Picasso, non permette di ignorare la crudeltà della guerra, Gaza ci ha costretto a confrontarci con il fallimento dell’umanità nel riconoscere e denunciare il genocidio.
La domanda che Guernica pone si ripresenta oggi, con una forza ancora più urgente. Cosa facciamo di fronte alla sofferenza degli altri? Perché restiamo in silenzio, anche quando conosciamo il colpevole? Le linee spezzate e i frammenti dell’opera di Picasso sembrano rappresentare anche l’incoerenza del nostro tempo, in cui si proclamano diritti umani ma si chiudono gli occhi su chi li calpesta.
Nell’opera, la madre che stringe il suo bambino morto non grida, il cavallo ferito non nitrisce, il toro non muggisce. È un silenzio assordante, un vuoto morale che amplifica il nostro disagio.
Gaza vive lo stesso silenzio. Il silenzio della comunità internazionale, il silenzio di chi potrebbe intervenire ma sceglie di non agire. E in questo vuoto si consuma il vero crimine, quello dell’indifferenza. La tregua non cancella le immagini di dolore e devastazione, né le responsabilità di chi ha scelto di guardare altrove.
Il bianco e nero di Guernica ci parla di memoria, ma anche di oblio. È come una vecchia fotografia, che ci costringe a confrontarci con il passato per comprendere il presente. Gaza, tuttavia, non ha ancora trovato il suo Picasso, qualcuno che traduca l’orrore in un linguaggio universale capace di scuotere le coscienze. La distruzione rimane documentata da telecamere e articoli, ma raramente si traduce in azioni concrete.
Il toro e il cavallo, figure centrali di Guernica, assumono nuove sfumature alla luce di Gaza. Il toro, simbolo di rabbia e brutalità, rappresenta la forza distruttiva di chi bombarda senza pietà. Il cavallo, ferito e contorto, incarna una popolazione inerme, straziata da una violenza che sembra non avere fine.
Questi due simboli raccontano la dinamica eterna della guerra: l’aggressore e la vittima. La lampada al centro del dipinto è stata interpretata come un simbolo di speranza o un occhio che osserva. Ma potrebbe anche essere letta come una luce che illumina senza agire, un testimone impotente. Gaza, intrappolata sotto quella stessa luce, non ha trovato una via d’uscita, né il sostegno che avrebbe meritato.
Picasso, con la sua opera, non ci ha offerto risposte. Ci ha rivolto un invito, però, a guardare più a fondo, a non distogliere lo sguardo. Gaza ci ha posto la stessa sfida. E, ancora una volta, il mondo sembra aver fallito la prova. La tregua può sospendere la distruzione, ma non il peso delle sue conseguenze, né l’urgenza di agire per cambiare il futuro.