Gerusalemme martoriata e divisa di nuovo. I palestinesi vittime di sempre


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(Simona Planu) – Gerusalemme, la santa, martoriata e divisa di nuovo. Le sue strade ancora una volta sono macchiate di sangue, odio e vendetta. Gerusalemme,  eterna e contesa, è il cuore pulsante di quella che molti considerano una “vecchia questione irrisolta”. Quello che divide israeliani e palestinesi è un confine sociale nato da consuetudini consolidate, da divisioni etniche supportate da un’organizzazione infrastrutturale e urbana pianificata per dividere.

Città di “diritti” e di “diritti negati”, ancora una volta imponente scenografia di una pellicola di guerra, vista e rivista, dove a imporsi è la forza delle armi, la macabra esibizione di corpi ormai privi di vita linciati da passanti affamati di una violenza senza implicazioni, se non quelle della coscienza personale e dignità di essere umano.

I morti di questa lunga vicenda storica sembrano essere solo un effetto collaterale che infastidisce, al momento, ma che non costituisce un danno irreparabile per una reale soluzione politica. Soltanto un anno fa, tra luglio e agosto, a Gaza i morti erano più di 2000, quasi tutti civili. Il loro sacrificio veniva giustificato ribadendo il concetto, anche oggi espresso da più parti, del diritto di esistere di Israele. Sono morti così a Gaza, con una comunità internazionale ferma al palo. Continuano a morire, oggi, con il mondo che giustifica le uccisioni avvalendosi di concetti quali autodifesa e risposta al terrorismo.

A luglio la knesset aveva approvato l’inasprimento della pena per chi ha la colpa di lanciare pietre contro i soldati.  Il provvedimento lasciava già presagire che qualcosa sarebbe cambiato o forse diventato “più visibile”. Ciò che emerge è un quadro di azione – reazione che legittima l’uccisione di assalitori o presunti tali, gli arresti indiscriminati, la demolizione di abitazioni e il blocco delle città.

I presupposti per la soluzione della crisi in Israele e Palestina poggiano sulla cessazione di azioni illegali e terroristiche attraverso la proclamazione dell’autodifesa, manca invece un’attenta riflessione sulla legislazione per la sicurezza in Israele. Non ci si interroga sulla delegittimazione dello status di combattente, sancito dal diritto internazionale, che porta di fatto a criminalizzare qualsiasi forma di resistenza popolare. Nella pratica, l’applicazione di questo modello si avvale dell’ordine militare n.1651 che, all’articolo 285, prevede l’istituzione della pratica di detenzione amministrativa. Quella detenzione amministrativa, senza processo, né capo d’accusa di cui tanto si parla in termini giuridici, ma che poche volte ha una più profonda considerazione degli effetti di tale provvedimento per chi è  condannato e per il mondo degli affetti che lascia alle spalle.

La detenzione amministrativa, unita al provvedimento che prevede la reclusione dei prigionieri palestinesi  nelle prigioni in territorio israeliano, in violazione dell’art. 76 della Convenzione di Ginevra, sono dei provvedimenti che penalizzano in maniera ancora più pesante una popolazione che vive sotto occupazione. Le lungaggini per l’ottenimento dei permessi necessari ad attraversare il territorio di Israele di fatto si traducono nella difficoltà – impossibilità per le famiglie di visitare i propri cari in carcere.

Il carattere non definitivo delle sentenze si traduce in una punizione ulteriore per chi deve subire la pena e per chi ne aspetta con ansia il rientro a casa. Ammesso che una casa ancora ci sia, visto che una delle sanzioni previste per i palestinesi accusati di terrorismo è la demolizione delle abitazioni di famiglia, che dovrebbe disincentivare ulteriori azioni terroristichema che di fatto richiama le punizioni collettive vietate dal diritto internazionale.

Il risultato di questo linguaggio propaganda supportato da un solido sistema di giustizia è quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. A Sarajevo il sangue che ha macchiato l’asfalto l’ hanno ricoperto di resina rossa, le chiamano “le rose di Sarajevo”. Sono lì per commemorare, per non dimenticare e per nutrire la speranza di un mondo meno ingiusto. Chissà se anche Gerusalemme, un giorno, sarà finalmente libera e se quei morti troveranno un po’ di  giustizia.

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