(Federica Cannas) – Gianni Minà non è mai stato un giornalista qualunque. Era uno di quelli che si sporcano le mani, che non si accontentano di guardare le cose da lontano. Lui voleva capire, vivere, attraversare le storie. Tra tutte le sue passioni, una batteva più forte delle altre: l’America Latina. Ma non quella delle cartoline o delle spiagge dorate di Punta del Este, no. Quella vera, quella che lotta, soffre, canta e sogna.
Minà aveva una dote rara: sapeva parlare con chiunque. Ma non era solo una questione di parole. Era il suo modo di ascoltare, di esserci davvero, senza filtri. Non sorprende che uomini e donne straordinari si siano affidati a lui per raccontarsi. Fidel Castro gli ha concesso un’intervista fiume di sedici ore, quasi un dialogo infinito. E poi Gabriel García Márquez, Diego Maradona, Rigoberta Menchú. Ogni incontro non era mai una semplice intervista: era un racconto condiviso, un momento di intimità in cui le parole si facevano storia e le persone diventavano simboli.
Impossibile non ricordare l’incontro con Diego Maradona, dal quale, nel 2000, scaturì un’intervista che è un capolavoro di giornalismo. Con la sua empatia unica, Minà riuscì a creare un dialogo intimo e autentico, andando oltre il calcio per esplorare il lato umano del campione. Maradona si aprì senza filtri, raccontando le sue origini, il peso della fama e le sue cadute, mentre Minà ascoltava con rispetto e profondità. Non era solo un’intervista, ma un viaggio nell’anima di un’epoca, capace di unire grandi temi personali e sociali. Ancora oggi, quel momento è un simbolo di come il giornalismo possa trasformarsi in arte, raccontando la vita con verità e cuore.
Non raccontava mai l’America Latina come un continente esotico o misterioso, come spesso capita a chi la guarda da fuori. Lui entrava dentro, nel cuore. Nei suoi reportage non c’erano cliché o immagini facili: c’erano vite, drammi, battaglie. La miseria delle favelas, sì, ma anche la forza delle rivoluzioni. I silenzi degli oppressi e le grida di chi non si arrendeva.
Gianni Minà aveva l’abilità di cogliere le sfumature, di mostrare che l’America Latina non era solo dolore, ma anche bellezza. Una bellezza che resisteva, che si aggrappava a ogni cosa: un sorriso, una canzone, una piazza piena di gente in marcia per la libertà.
Per lui, l’America Latina non era solo un luogo geografico. Era un modo di guardare il mondo, una lente che metteva a fuoco le ingiustizie, ma anche la capacità umana di rialzarsi. Lui amava il popolo latinoamericano e quel popolo si fidava di lui, perché sapeva che Minà non cercava sensazionalismi ma verità.
Quando raccontava di quei luoghi, lo faceva con rispetto, ma anche con poesia. Perché l’America Latina, nella sua narrazione, era sempre qualcosa di più: una madre ferita ma forte, un canto che nessuna dittatura è riuscita a spegnere.
Quello che ci ha lasciato non è solo un archivio di interviste o documentari. È uno sguardo diverso, profondo. Uno sguardo che ci insegna a non fermarci alla superficie, a non cadere nella tentazione delle semplificazioni.
Ci ha insegnato che raccontare significa avvicinarsi, capire, e soprattutto amare. E forse questa è la lezione più grande che ci ha lasciato: l’amore come chiave per aprire le porte del mondo, anche quelle più difficili da attraversare.
Con la sua vita e il suo lavoro, Gianni Minà ha dimostrato che il giornalismo può essere molto più di un mestiere. Può diventare un atto di fede, un ponte tra le persone.
E in quel ponte l’America Latina resterà sempre un luogo speciale, dove il cuore di Minà continua a battere forte.