(Bruno Scapini) – È chiaro: Hassan Nasrallah contraddice le aspettative di un allargamento del conflitto a Gaza. Questo sembra essere, stando almeno ad una prima lettura filologica del discorso da lui tenuto a Beirut il 3 novembre scorso, l’essenza della posizione che Hezbollah intende mantenere sulla guerra in corso tra Israele e Hamas.
Nonostante i drammatici sviluppi della controffensiva israeliana, che lasciavano ampiamente supporre dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre un’estensione della guerra fino al coinvolgimento di altri attori regionali, il discorso di Nasrallah, a dispetto delle focose invettive lanciate contro i nemici di sempre, stempera tale fosca previsione inducendo piuttosto a pensare alla crisi di Gaza ancora in una dimensione di sommessa governabilità: Hezbollah non intende aprire un secondo fronte sul confine libanese. Gli effetti di un tale sviluppo, infatti, potrebbero realisticamente portare ad una “escalation” della guerra. Cosa che in fondo nessuno in questo momento vorrebbe, né starebbe cercando. Per contenere la presenza israeliana a Gaza, infatti, basterebbero, interpretando il pensiero di Nasrallah, le azioni sporadiche di disturbo che i suoi miliziani effettuano sul confine libanese – come peraltro quelle dei gruppi militanti dello Yemen – ritenute allo stato idonee per tenere impegnata una parte significativa dell’Esercito israeliano distogliendolo dalla Striscia di Gaza. Del resto nel discorso di Nasrallah non è dato rinvenire nessun elemento che confermi una volontà di estendere il conflitto.
La sua dichiarazione di trovarsi in fondo già in guerra con Israele fin dal 7 ottobre, pur confermando l’impegno a fiancheggiare i fratelli palestinesi nella lotta, assumerebbe tuttavia, a ben guardare, il sapore di un astuto “escamotage” concepito dal leader di Hezbollah al fine di evitare una esplicita dichiarazione di guerra che, se effettuata, rischierebbe plausibilmente in questo momento di innescare una pericolosissima spirale di guerra a livello regionale. Anche per questo il leader di Hezbollah prende le distanze da Hamas e dichiara l’attacco del 7 ottobre essere una precipua sua iniziativa di cui declina ogni coinvolgimento di responsabilità.
Da osservare del resto, con riferimento al contesto in cui il discorso di Nasrallah andrebbe necessariamente collocato, come questo atteggiamento prudenzialmente assunto da Hezbollah sia in fondo da ricondurre, da un lato, alla consapevolezza dei rischi insiti in un suo eventuale ingresso nel conflitto – premessa per un prevedibile allargamento dello scenario bellico – e, dall’altro, ai limiti che connoterebbero la stessa offensiva israeliana a Gaza. Limiti derivanti non solo dalle pressioni di Washington volte a indurre Tel Aviv a circoscrivere il proprio raggio d’azione, alleggerendo la pressione sulla popolazione civile palestinese, ma anche dal crescente isolamento in cui Israele si sta già ora trovando per via di una pubblica opinione internazionale decisamente contraria al modo indiscriminatamente spregiudicato con cui Israele sta conducendo l’azione militare a Gaza. Una circostanza, come ha precisato lo stesso Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, che indurrebbe a far prefigurare a carico di Israele addirittura gravi responsabilità per violazione dei Diritti Umani.
Sul punto, peraltro, Nasrallah sembrerebbe aver esplicitato chiaramente il proprio pensiero, e lo fa allorché non esclude un crescendo progressivo del conflitto qualora dovessero verificarsi due particolari condizioni: che Israele, lungi dal limitare l’offensiva nel settore nord della Striscia, tenti di continuarla fino a compromettere l’esistenza stessa del popolo palestinese di Gaza, e che si realizzi l’eventualità – finora soltanto temuta – di un diretto attacco israeliano sul territorio libanese. Uno sviluppo quest’ultimo che, coinvolgendo inevitabilmente le milizie sciite di Hezbollah, equivarrebbe a chiamare in causa nel conflitto la Siria e l’Iran realizzando, in quest’ultimo caso, il grande obiettivo americano – non cancellato, ma solo rinviato in attesa di tempi migliori – inteso a destabilizzare l’ultimo paese del Medio Oriente a non essere stato finora intaccato dal germe delle “primavere arabe”.
Un dato sembra comunque acclarato a questo punto: a decidere le sorti del conflitto non sarà certamente il senso della pietà e della commiserazione per la immane crisi umanitaria che sta investendo la popolazione di Gaza. Sebbene le orrende condizioni in cui i palestinesi si trovano oggi a vivere stiano allarmando il mondo, suscitando profonda indignazione e riprovazione in tutta la Comunità internazionale, non saranno loro purtroppo a indurre le parti in conflitto ad addivenire ad un auspicabile “cessate-il fuoco”. Un obiettivo, questo, che potrà invece essere realisticamente raggiunto solo quando Tel Aviv, a distruzione avvenuta delle strutture militari di Hamas, riterrà soddisfatte le proprie condizioni di sicurezza, ma senza tuttavia arrecare pregiudizio alla integrità dell’asse di resistenza ad Israele rappresentato dalla alleanza tra Hezbollah, Siria ed Iran. In caso contrario, infatti, un allargamento del conflitto non sarebbe da escludere, ma sconterebbe degli esiti decisamente più drammatici rispetto a quelli attualmente sotto i nostri occhi. Rimarrà tuttavia da vedere, in questa prospettiva, e questa è la grave incognita che pende sul futuro del popolo palestinese, quale potrà essere, a conclusione dell’operazione militare in corso, il destino che Tel Aviv riserverà alla parte nord di Gaza. Intenderà forse Israele ritirarsi, come fatto nelle precedenti invasioni messe in atto dal 2008 e durate fino a diverse settimane? O questa volta opterà per un’altra scelta decidendo di mantenere per sé il totale controllo su questa parte della Striscia per farne un territorio strategico in vista di inibire in futuro una qualunque ripresa di attività terroristica?
Credere comunque da parte di Gerusalemme che annientando Hamas e i suoi capi si giunga alla soluzione della crisi in atto è un convincimento profondamente erroneo oltre che illusorio. Se per Israele, come sappiamo, questo confronto bellico che si trascina ormai da lunghi decenni è questione di sicurezza per lo Stato e per il popolo israeliano, per i palestinesi, per contro, è questione di identità nazionale, un valore fondativo della stessa nazione palestinese pregiudicato da una Storia rivelatasi purtroppo ingenerosa e tuttora alla ricerca di se stessa. Eliminare Hamas non potrà mai quindi essere la soluzione. Una volta cancellato, verrà certamente sostituito da un altro movimento. Uccisi i capi di oggi, altri ne verranno a rimpiazzarli, e per giunta con una carica di aggressività infinitamente peggiore per via della efferata violenza subita oggi da un popolo costretto ad un forzoso esodo dalle proprie terre. Se è vero quel che si dice che Hamas non andrebbe identificato, per via della sua barbarie, con l’innocente popolo palestinese – opinione ovviamente di comodo, questa, che sposata dai circoli politici occidentali giustificherebbe l’aiuto umanitario concesso a Gaza sotto la spinta di un desiderio di redenzione imposto dal senso di colpa per non poter frenare la furia genocidaria di Tel Aviv – sembrerebbe però altrettanto innegabile, e con una dose forse maggiore di verità, che un popolo non può auto gestirsi senza un proprio governo che lo determini verso gli interessi e le cause nazionali. Nel bene o nel male Hamas ha finora assolto a questo compito, ma se Israele dovesse riuscire a sradicarlo da Gaza stiamo pur certi che un altro movimento ribelle verrà a riprenderne ruolo e funzioni in nome di un popolo reso ancor più mortificato dalla efferatezza con cui l’Esercito della Stella di David sta oggi impunemente conducendo le sue operazioni militari. Forse è giunto il momento che Israele comprenda i limiti della propria azione di rappresaglia che, per poter essere ammessa in punto di diritto internazionale, deve mantenersi entro la soglia di una sostanziale proporzionalità con il danno ricevuto, e senza che abbia a travalicare gli obblighi imposti dalle Convenzioni internazionali in tema di tutela e salvaguardia in tempi bellici della popolazione civile, la cui violazione porterebbe inevitabilmente a prefigurare a carico di Tel Aviv dei veri effettivi crimini contro l’umanità.
Con la presa sotto controllo dell’area nord di Gaza, Israele dovrebbe così plausibilmente dichiarare raggiunto il proprio obiettivo più immediato. La guerra raggiungerebbe a questo punto il suo grado di massima espansione per convergere poi, ed auspicabilmente, verso un negoziato – mercè la mediazione di un Governo fiduciario – in vista di regolamentare il rilascio degli ostaggi. Un problema non certo determinante per Tel Aviv sul piano militare, ma capace tuttavia di pesare come un macigno sul futuro ruolo politico di Netanyahu costretto, a guerra finita, a saldare i conti con una opposizione crescente all’interno del suo Paese.
Sul piano regionale, infine, a meno di un attacco israeliano sul confine libanese – ipotesi assai improbabile del resto per le gravissime implicazioni che l’iniziativa avrebbe in termini di una possibile “escalation” della guerra – la situazione dovrebbe rimanere “stabilmente instabile”. La forza deterrente espressa dall’eccezionale concentrazione nel Mediterraneo meridionale di flotte navali pronte a confrontarsi, e l’assenza oggi, nell’area mediorientale, di un Paese disposto ad offrire a Washington sul proprio territorio un luogo per una base militare da attivare in caso di guerra terrestre, sembrerebbero altrettanti fattori dissuasivi per tutte le forze in campo in grado di evitare un pericoloso avvitamento del conflitto su scala regionale.