I bambini palestinesi crescono in fretta. Quello che i media non fanno vedere


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(Simona Planu) – Resta poco o niente del discorso pronunciato  dal presidente palestinese Abu Mazen. Gli Israeliani lo chiamano bugiardo, diffondono le foto di Ahmed Mansara, il piccolo di 13 anni gravemente ferito 3 giorni fa dalla polizia israeliana. Circola anche il video che lo vedrebbe coinvolto in un tentativo di aggressione nei confronti di un suo coetaneo israeliano. Le immagini mostrate iniziano a riempire i giornali, i commenti e le descrizioni sembrano urlare: “Eccolo il vostro piccolo terrorista, è in ospedale, è vivo”.

Un occhio più attento e sensibile si sarebbe concentrato sulle manette con le quali un bambino è costretto nel suo letto di ospedale, gli occhi impauriti e lividi che hanno visto suo cugino, di pochi anni più grande, morire così, trivellato di colpi in una strada di Gerusalemme. I parenti del bambino insorgono: nessuno della famiglia avrebbe autorizzato le autorità israeliane a divulgare le foto.

Quelle foto in ospedale sono l’ennesima prova che, se sei palestinese, non ci sono diritti garantiti e tutele internazionali. Sono tutte lì le ragioni della rivolta, in quelle immagini e nei commenti dei giornali, delle autorità israeliane e dei sostenitori dello stato di Israele: la restrizione dei diritti e delle libertà fondamentali, la discriminazione su base identitaria affermatasi attraverso l’abuso di potere e la sproporzione nell’uso della forza.

I bambini palestinesi crescono in fretta, soprattutto i bambini nati nei campi profughi o che vivono  vicino agli insediamenti illegali. Crescono in fretta come quelli delle periferie dimenticate di ogni città.

Sono loro che cantano a squarciagola i nomi di tutte le città della Palestina storica, anche quelle che ormai sono parte di un altro stato. Conoscono che cosa significhi l’identità e sanno bene che nessun confine imposto con la forza può costruirla. Là, dall’altra parte del muro e dei checkpoint. ci sono i fratelli palestinesi di Gaza, di Haifa e di Gerusalemme.

Quegli stessi bambini li vedi giocare nelle strade troppo strette del campo e, a volte sono le tue guide, ti portano in giro per i campi. Poi, all’improvviso si fermano e con sguardo triste ma fiero indicano con il dito il luogo preciso dove sono stati arrestati.

Secondo le organizzazioni per i diritti umani, i bambini palestinesi vivono in un ambiente sociale reso costantemente instabile dall’autorità israeliana. Sono spettatori degli arresti, delle demolizioni e perquisizioni e, spesso, sono loro stessi vittime di un sistema di giustizia che viola il diritto umanitario e la  convenzione dei diritti dei bambini: il trasferimento forzato dei bambini palestinesi in territorio israeliano; gli interrogatori senza rappresentante legale; gli arresti notturni; l’allontanamento dai genitori, sono solo alcune delle violazioni commesse quotidianamente dall’esercito.

Crescere in Palestina, a Ramallah come a Gaza, significa dover bilanciare o ridimensionare i  sogni di gioventù con le politiche dell’occupazione che pervadono tutti gli aspetti della vita. E’ da qui che nasce la richiesta di giustizia e libertà che, quando si tratta di un popolo sotto occupazione militare, passa inevitabilmente per la rivolta, per lo scontro. Una rivolta che non intacca l’identità politica, ma che oggi sembra uscire dalle dinamiche di partito per ritrovare unità e forza sotto la stessa bandiera.

Così, i bambini cresciuti nell’indifferenza delle istituzioni internazionali e con la consapevolezza di quanto è difficile l’applicazione del diritto, ma forti dell’identità di popolo, oggi sono i giovani che scendono in strada. Lo fanno utilizzando una comunicazione che si arricchisce dei simboli dell’identità e della solidarietà, mostrando al mondo un’unità che il linguaggio dei media e delle istituzioni internazionali non hanno fatto proprio.

La rivolta palestinese viene descritta come terrorismo. Il perché lascia aperti molti interrogativi. E’ così che non vedremo  nei principali giornali o reti televisive le immagini dei giovani di Gaza che creano un varco in quella recinzione che li divide dal resto del mondo.

Non vedremo i giovani con un rosario al collo, o le immagini di un funerale a cui partecipano migliaia di persone. Non vedremo centinaia di giovani avvocati che sfilano vestiti delle loro toghe nere, né le strade delle città Israeliane, quelle che l’apartheid solo fisicamente non ha diviso, dove i palestinesi che ci vivono si sono riversati in massa negli ultimi giorni.

Non le vedremo queste immagini perché propongono un modello diverso che sfida le logiche della schiavitù – oppressione  e dell’ individualismo proposto come unica alternativa possibile.

Questi giovani forse cercano l’appoggio e l’organizzazione di nuove leadership o forse no. Forse sono consapevoli che il pensiero dei grandi leader, dei martiri di questa lotta senza fine, di coloro che sono in carcere o hanno perso la vita per la libertà continuano a vivere in ogni palestinese che ancora ci crede. Per ora vanno avanti così, convinti di cambiare le sorti del proprio cammino verso l’ autodeterminazione.

 

 

 

 

 

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