(Anna Maria Brancato) – Chi segue da vicino le vicende mediorientali si sarà sicuramente chiesto, almeno una volta, se lo scoppio di una terza intifada palestinese sia possibile, soprattutto dopo i ripetuti fallimenti dei “negoziati di pace”, il proseguimento delle costruzioni illegali e l’espandersi delle colonie israeliane. Il susseguirsi degli arresti arbitrari, la detenzione amministrativa, gli abusi sui minori e il mancato riconoscimento del diritto al ritorno sono altri fattori in grado di scatenare un’insurrezione contro Israele. La posizione non sempre chiara dello stesso presidente palestinese Mahmūd Abbās ha complicato il quadro della situazione.
Innanzi tutto cosa è l’intifada. Il termine deriva da un verbo arabo (nafada) che significa “scuotere”, “sollevare”, da cui la forma intifada come “sollevazione”, “rivolta”.
La prima intifada palestinese si ebbe nel 1987, la famosa intifada delle pietre che scoppiò a Gaza e in Cisgiordania dopo che un camion delle Forze di Difesa Israeliane (FDI) colpì due furgoni che trasportavano operai di Gaza al campo profughi di Jabaliyya.
Le cause furono svariate: la frustrazione causata dalla nascita dello stato ebraico nel 1948; le due guerre arabo – israeliane del ’67 e del ’73 che poi porteranno alla normalizzazione dei rapporti fra alcuni stati arabi e Israele; l’invasione del Libano nel ’78 e l’intervento dell’esercito israeliano contro la presenza palestinese nel Paese dei Cedri e l’OLP, che a quel tempo mostrava ancora di poter essere almeno un punto di riferimento per i palestinesi in lotta e che invece venne sradicata e i suoi leader mandati in esilio.
La rivolta, però, ebbe il merito, di scuotere gli animi dell’opinione pubblica internazionale tant’è che il 1993 segna uno spartiacque molto importante nella storia palestinese con i cosiddetti Accordi di Oslo. Sostenuti con la speranza che qualcosa davvero potesse cambiare, si rivelarono molto più contradditori e ingannevoli. La Palestina ne uscì maggiormente divisa e i suoi leader pensarono a preservarsi un posto nel nascente governo a interim, rimandando questioni annose e tutt’oggi irrisolte come il diritto al ritorno, lo status Gerusalemme e i confini.
E’ proprio a Gerusalemme che scoppia la seconda intifada (intifada di al-aqsa) dopo che il leader del partito di estrema destra israeliano, Ariel Sharon, si concedette una provocatoria passeggiata sulla spianata delle moschee. Anche qui le cause e gli eventi che precedettero la rivolta furono molteplici: il massacro di Hebron nel ’94 e la lunga serie di attentati suicidi che ne conseguirono; il mancato appoggio ai negoziati di Oslo, non solo da parte palestinese quanto anche israeliana; il fallimento dei negoziati di Camp David; i continui scontri in Libano e il conseguente bombardamento del paese da parte di Israele.
Non c’è una data precisa che segna la fine di questa seconda intifada. Primo perché sostanzialmente nulla è cambiato dal dopo Oslo; secondo perché la vittoria nel 2006 del movimento di resistenza islamico (Hamas) a Gaza non solo ha acuito la rigidità di Israele, ma ha anche segnato una profonda frattura all’interno della stessa politica palestinese che si è trovata divisa a livello ideologico, metodologico e geografico.
Il dopo Oslo. La colpa più grande imputata agli accordi di Oslo è stata la creazione di un sistema amministrativo, economico, politico controllato dall’Autorità Palestinese (AP) a servizio dell’occupante, con la conseguente nascita di una nuova classe media che dopo anni di paura e terrore si ritrova protetta e privilegiata e ha tutto l’interesse a collaborare col nemico per il mantenimento di uno status quo.
Questo può essere facilmente compreso se si considera il fatto che l’AP dipende in gran parte da aiuti che provengono dall’Unione Europea e che sono controllati dal Fondo Monetario Internazionale e la quota destinata agli stipendi degli impiegati dell’AP dipende proprio da questi interventi esterni.
Facile intuire, quindi, come questi finanziamenti esteri vengano abilmente trasformati in strumenti di controllo politico; il che non ha fatto altro che allontanare il cittadino dalla politica reale, sentita sempre più come corrotta, e da quelli che sono i veri bisogni della collettività, spingendolo verso atteggiamenti egoistici e individualistici per paura di perdere i propri mezzi di sostentamento.
L’individualismo, tipico delle società moderne capitaliste, è una conseguenza diretta di quella che Gramsci identificherebbe come egemonia culturale: la creazione di una falsa coscienza che porta alla rinuncia del soddisfacimento dei bisogni collettivi per assecondare l’ideologia borghese dominante, piegata al consumismo, alla competizione sociale, all’individualismo e asservito al potere dell’occupante.
Questo è il motivo per cui molti non vedono come possibile un imminente scoppio di una terza intifada, intesa proprio come rivolta violenta, nonostante la situazione dei palestinesi non sia cambiata dal lontano 1987, se non in peggio.
Alla domanda, dunque, se sia o no prossimo lo scoppio di una terza intifada non è possibile rispondere in modo certo e univoco. Certo è che il popolo palestinese porta avanti la sua lotta quotidianamente, con dignità, con la forza delle armi e con l’intelletto ed è anche vero che, nell’era del’informazione digitalizzata, altre forme di “rivolta” dal basso stanno prendendo piede: ad esempio il boicottaggio internazionale che si sviluppa in più fronti, da quello accademico, culturale ed economico.
Esiste, poi, un’intifada che cerca il sostegno internazionale: basti pensare all’appoggio che molti stati sudamericani hanno dato alla causa palestinese; un’intifada che cerca di strappare il riconoscimento, seppur simbolico, di uno stato palestinese all’ONU; e ancora un’intifada che cerca una legittimità agli occhi dell’opinione pubblica internazionale attraverso gli scioperi e le campagne dei prigionieri politici.
Intifada è prima di tutto un concetto e in quanto tale è passibile di mutamento. Portare avanti l’intifada significa anche portare avanti nuove forme di lotta che devono partire dal basso per essere efficaci e condivise e per essere uno strumento utile e continuativo di resistenza contro le politiche d’apartheid del regime israeliano.
Anna Maria Brancato (1986). Laureata in Governance e Sistema Globale all’Università di Cagliari, con una tesi sulla condizione dei profughi palestinesi in Libano e, in particolare, nel campo profughi di Shatila, a Beirut, dove ha soggiornato per svolgere le sue ricerche.