Il caso Abedini/Sala: prova di una sovranità compromessa


Condividi su

(Bruno Scapini) – Al di là delle dichiarazioni ufficiali rilasciate dai due Paesi interessati, l’Italia e l’Iran, secondo le quali sarebbe inconsistente  una correlazione tra i due casi di arresto, di Mohammad Abedini in Italia e di Cecilia Sala in Iran, sembrerebbe utile esercizio valutare la dinamica politica in cui è avvenuto il rilascio di entrambi al fine di comprendere il vero senso dell’operazione e il suo portato in termini di effettive capacità diplomatiche del nostro Paese.

Il positivo esito che la vicenda ha segnato con la liberazione della nostra connazionale è certamente un’eccellente occasione di giubilo per l’Italia, e ciò indipendentemente dall’ideologia politica di appartenenza. Tuttavia, attribuire il successo ad un’operazione diplomatica di straordinaria abilità e sperimentata maestria sembrerebbe, a ben guardare, alquanto esagerato. Permarrebbe, infatti, una sotterranea perplessità suscitata dal dubbio che il rilascio in entrambi i casi non sia stato proprio l’effetto di una riconosciuta destrezza della nostra diplomazia, bensì la conseguenza di un patteggiamento concordato non tanto sul piano bilaterale tra Roma e Teheran ( in fondo soggetti passivi della vicenda), quanto nella triangolazione decisionale che ha visto la visita lampo resa dalla nostra Premier Meloni negli Stati Uniti come elemento chiave risolutivo. Ma procediamo per gradi.

Che ci sia una correlazione – contrariamente alla tesi che si insiste a far credere vera – è fuori di dubbio.

La stretta tempistica con cui si è proceduto agli arresti in Italia ( il 16 dicembre per Abedini) e in Iran (il 19 dicembre per Cecilia Sala), difficilmente indurrebbe a smentirla considerata l’attitudine del regime iraniano ad acquisire “crediti” in vista di possibili scambi di prigionieri. Ma l’elemento che sgombrerebbe il campo dalle incertezze sul punto sarebbe proprio il coinvolgimento degli Stati Uniti nella vicenda, il cui interesse a ottenere dall’Italia l’estradizione di Abedini si sarebbe posto quale pesante condizionamento per il rilascio della nostra giornalista.

L’Italia, e questo dovrebbe essere chiaro universalmente, è venuta a trovarsi nella circostanza di fronte a una questione estremamente complessa, ardua da risolvere e soprattutto delicatissima nel quadro degli interessi in gioco: da un lato sacrificare il rilascio della connazionale rinviandolo ad astrusi e poco prevedibili favorevoli sviluppi futuri, pur di compiacere gli Stati Uniti, dall’altro, bruciarsi le prospettive di una buona relazione con Washington negando l’arresto prima e poi l’estradizione di Abedini onde favorire il rilascio della Sala da parte dell’Iran.  Ma a complicare il già difficile quadro decisionale c’è stato anche un altro elemento: la transizione presidenziale.

La richiesta americana di arresto e di estradizione del cittadino iraniano emanava in fondo da una Amministrazione uscente (e per tale mera condizione di fatto debole), mentre una nuova si preannunciava nel futuro immediato, decisa, risoluta e imperiosamente assertiva, quella di Trump, ma non ancora in potere. Orbene, la scelta per semplice calcolo di “economia politica” è caduta sull’Amministrazione subentrante, con la quale la Premier Meloni ha inteso giocarsi la carta dello scambio di detenuti con Teheran contando su una risolutiva acquiescenza della nuova Amministrazione americana a soprassedere all’arresto e all’estradizione di Abedini.

L’estradizione, e questo è doveroso precisarlo sul piano giuridico, è un istituto estremamente delicato che tiene conto per la sua concessione (estradizione passiva) di una accurata valutazione del caso sia in termini di fattispecie penale – che deve risultare sostanzialmente coincidente negli ordinamenti dei due Paesi interessati – sia sul piano più squisitamente politico, ovvero per una necessaria garanzia di assenza di motivazioni politiche che potrebbero sottendere la consegna stessa del soggetto estradando.

Non si conoscono i termini e gli esatti contenuti del mandato di cattura che gli USA avrebbero emesso. Ma sappiamo, comunque, che le ragioni riconducibili alla normativa americana dell’ I.E.E P.A. (International Emergency Economic Powers Act) non trovano pari corrispondenza nel nostro ordinamento, e che quindi la questione dell’acquiescenza americana avrebbe trovato giustificazione per i supposti elementi connessi al terrorismo proprio nei margini di quello spazio politico generalmente riservato all’istituto dell’estradizione. Margini che hanno consentito nella circostanza di risolvere il caso contando sia sulla debolezza di un Presidente ancora in carica, ma ormai prossimo alla quiescenza, sia sull’indifferenza del nuovo per atti in fondo adottati da una Amministrazione uscente nemica, di cui peraltro è notorio l’atteggiamento persecutorio tenuto fino all’ultimo al fine di ostacolare al neoeletto Presidente un sereno accesso al prossimo mandato.

Fondamentale, dunque, sarebbe stato per attuare lo scambio l’intervento di Trump, il quale avrà certamente offerto il proprio assenso tranquillizzando sì il nostro Governo su un’operazione che avrebbe potuto – se gestita autonomamente – urtare le sue suscettibilità, ma ottenendone in contropartita un titolo di credito verso il nostro Governo da riscuotersi in futuro attraverso una qualche sua altra manifestazione di fedeltà.

Non è forse questo il segno inequivocabile di una subalternità dura a morire dell’Italia verso i poteri euro-atlantisti? I ristrettissimi margini di scelta disponibili per Roma in questa faccenda del resto lo comproverebbero, lasciando il chiaro segno di una diplomazia sottomessa, ma soprattutto quello di una sovranità decisionale decisamente compromessa.

 

 

 

  


Condividi su