Il caso Amal Alamuddin. Chi difende Gaza è un nemico


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di Federica Cannas

C’è qualcosa di inquietante nell’apprendere che Amal Alamuddin Clooney, una delle avvocate più rispettate a livello internazionale per il suo impegno nella difesa dei diritti umani, sia finita nel mirino delle sanzioni statunitensi per aver semplicemente fatto il suo lavoro. Un lavoro che, nel suo caso, significa rappresentare i principi più nobili della giustizia internazionale. Ma evidentemente oggi, in questo mondo rovesciato, lottare per i diritti umani può trasformarti in un bersaglio. Soprattutto se osi toccare l’intoccabile: Israele.

L’accusa? Aver collaborato con la Corte Penale Internazionale nell’indagine che ha portato al mandato d’arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, responsabile, per la Corte Penale Internazionale, di crimini di guerra a Gaza. Si arriva a questo punto. Chi osa chiedere conto dei massacri di civili rischia la propria libertà. Chi mette in discussione l’impunità dei potenti viene trattato come un nemico.

Gli Stati Uniti, ancora una volta, si sono schierati dalla parte sbagliata della storia. Minacciare Amal Alamuddin con sanzioni e vietarle l’ingresso nel Paese non è solo un gesto vile, è un segnale pericoloso. Significa che la giustizia internazionale, tanto sbandierata nei consessi ufficiali, viene sostenuta solo quando non disturba gli alleati più comodi. Quando invece osa alzare la testa contro chi detiene il potere reale, allora diventa fastidiosa, da mettere a tacere. E in questo teatrino grottesco, l’ipocrisia si fa legge.

Siamo di fronte all’ennesimo atto di sottomissione collettiva nei confronti di Israele, che da anni agisce con arroganza, protetto da uno scudo di silenzi e complicità. Le immagini di Gaza parlano chiaro: morti, distruzione, bambini uccisi. Ma guai a chiedere giustizia. Chi lo fa, viene minacciato, isolato, criminalizzato. E intanto l’Occidente, che ama definirsi culla dei diritti e della democrazia, rimane a guardare, quando non partecipa attivamente a questa farsa.

Amal Alamuddin ha osato sfidare l’ordine delle cose. Ha ricordato al mondo che nessuno è al di sopra della legge, nemmeno Netanyahu. E per questo ora deve pagare. Non è più possibile accettare che chi difende la vita dei civili venga trattato come un criminale, che le istituzioni nate per proteggere l’umanità siano calpestate sotto il peso di interessi geopolitici.
La difesa dei diritti umani non può essere a geometria variabile. La giustizia non è una bandiera da sventolare a piacimento, ma un dovere, soprattutto quando è scomoda.

È il momento di scegliere di stare dalla parte di chi non si piega, dalla parte di chi difende la verità, di chi crede che la legge debba servire i più deboli e non i potenti. Sta a noi gridare forte che Gaza merita rispetto, non complicità.

E che la giustizia, quella vera, non si negozia. Mai.


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