(Aram Ananyan – Direttore Agenzia di stampa Armen Press) –Una storia, un uomo, un volto per ricordare il genocidio del popolo armeno. La storia è quella di Aharon Manukyan, un sopravvissuto. Questo nome a molte persone non dirà nulla. L’anno scorso Aharon ha festeggiato il centesimo compleanno. Quando una giornalista della mia agenzia di stampa andò a casa sua, gli occhi raccontavano la purezza del suo carattere e le sue mani mostravano le avversità che aveva trascorso durante la sua vita. È nato nel villaggio armeno di Van, villaggio che attualmente si trova in Turchia. Ma ciò che lui considera la sua casa è un orfanotrofio americano, orfanotrofio organizzato nell’Armenia sovietica in seguito al genocidio.
È una storia che in Italia viene raccontata per la prima volta nel libro “Il Genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti” (Arkadia Editore), un volume prezioso che serve a tenere viva la fiamma della memoria e a ricordare, cento anni dopo, il primo crimine contro l’umanità dell’era moderna. La storia di Aharon ha un milione di storie gemelle, di sopravvivenza, di libertà e di superamento dei pregiudizi.
La storia armena può essere divisa in diverse parti, probabilmente la separazione più tragica è quella tra la storia prima del genocidio e quella successiva al genocidio. Parlare di ciò, senza comprendere l’intera complessità di questo crimine, parlare della storia armena senza considerare il riconoscimento e la condanna di questo crimine come pilastro fondamentale, è impossibile.
Mentre Aharon festeggiava il centesimo anniversario, cento anni e un mese dopo (è nato nel marzo del 1914), Recep Tayyip Erdoğan, Primo Ministro turco, offriva le sue condoglianze ai nipoti dei cittadini dell’Impero Ottomano senza fare alcuna distinzione tra gli armeni.
I media internazionali reagirono immediatamente pensando che fosse una notizia dell’ultima ora, che ci fosse una maggiore prontezza a iniziare il dialogo. Ma quello fu solamente un altro tentativo di negare, di rifiutare. Un tentativo più sofisticato, con un vocabolario più ricco e con un linguaggio che potesse essere compreso dall’audience occidentale, per quelli che non erano consapevoli di quanto accadde all’inizio del XX secolo.
Per noi armeni la data del 24 aprile del 1915 è una data fondamentale, perché allora iniziò l’evento, il crimine, la calamità. Quella data è il tema chiave che noi poniamo come pilastro basilare di ogni discussione sul genocidio. È importante per quattro ragioni: 1) Ragione politica; 2) Ragione legale; 3) Ragione etica; 4) Ragione di sicurezza.
Ragione politica. Fino ad oggi, la Turchia non ha dimostrato la volontà di stabilire relazioni con gli armeni. Né di accettare il crimine né di dimostrare che potrebbe farlo, come tutte le nazioni civilizzate fanno.
Ragione legale. Il genocidio è molto più che un evento storico. È un crimine contro l’umanità. Persino all’inizio del XX secolo, sotto diversi nomi, questo tipo di atrocità furono considerate azioni criminali dalla comunità internazionale. Persino le Corti Ottomane nel 1919, in seguito al crollo dell’Impero Ottomano, cercarono di portare gli esecutori del genocidio armeno davanti alla giustizia. Ma molto presto, furono convertiti in uno stato profondo dominato da un’ideologia negazionista orchestrata dallo stato.
Ragione etica. Noi tutti dobbiamo comprendere che senza riconoscimento, perpetuiamo la sofferenza dei discendenti, dei nipoti dei pronipoti, di quelli che realmente hanno vissuto questa tragedia. Adottando questa politica negazionista, la Turchia prolunga la sofferenza dei suoi nipoti perché priva loro, in particolare gli armeni che vivono in Turchia, del diritto di piangere le loro perdite, del diritto di ricordare le proprie vittime e i pregiudizi.
Ragioni di sicurezza. Considerato il comportamento del negazionismo del genocidio, adottato da azioni aggressive che la Turchia dimostra di avere nel Medio Oriente, ricordando l’esperienza cipriota nel 1974. Guardate a ciò che accade con l’ISin Siria e in Iraq. E’ necessario che la Turchia accetti il crimine per non ripeterlo più. Al contrario, vediamo il ripetersi di comportamenti che non porteranno da nessuna parte la società turca.
Quando il Primo Ministro Erdoğan offrì le condoglianze, tutti dissero che questo rappresentava un tentativo di instaurare relazioni tra turchi e armeni, ma ciò che mancava nel suo discorso fu la sincerità. Sì, la sincerità. E l’onestà. Perché quello che vediamo oggi è una manipolazione con il linguaggio, con le cifre e le statistiche. Non si occupa realmente del problema.
Nella mia giacca porto un piccolo fiore. È il “non-ti-scordar-di-me”. Una piccola montagna ha il fiore che cresce separatamente, ovunque tu lo colga, metta acqua o altro, tu non lo dimenticherai mai. Ha cinque petali e questo è il simbolo del ricordo delle vittime del genocidio armeno. L’immagine di persone costrette ad andare verso altri continenti, portando con loro una tragedia dentro e il sole che spunta alle loro spalle. È un simbolo di libertà.
Perché è importante che i media armeni comunichino questi messaggi? Prima di tutto, perché non esiste famiglia nel mio paese che non porti con sé questa tragedia. In secondo luogo, questo è il più grande contributo alla costruzione della riconciliazione tra armeni e turchi. Perché, come dice il motto: “Noi ricordiamo, noi pretendiamo riconoscimento”, ma il riconoscimento non è vendetta. Il futuro dell’Armenia e dei turchi è uno accanto all’altro.
Noi siamo vicini. Noi non venderemo le nostre case, nemmeno loro venderanno le loro case per tornare in Asia Centrale, da dove vengono. Questa è la realtà. Le persone hanno bisogno di attraversare una lunga, ma importante strada di riconciliazione. Ma sfortunatamente, quello che vediamo oggi è l’immaturità dell’élite politica turca nel costruire un sistema, una repubblica più matura e sensibile verso le minacce contro i diritti umani. Perché il riconoscimento del genocidio armeno è una questione di diritti umani. È il diritto di ricordare, di ricordare il tuo passato, la tua gioventù, le tue speranze.
Quest’anno ricorre il centenario del genocidio ed è importante raccontare le storie di chi è morto, di chi è salvato e anche le storie umane di chi con grande dignità ha supportato – e supporta ancora – gli armeni nelle pagine più difficili della loro storia, attualizzandole. I paesi arabi, ad esempio, furono i primi rifugi per i deportati armeni, vi fuggirono e vi trovarono assistenza. In primo luogo, la Siria, il Libano, l’Iraq. È lì che i deportati trovano un pezzo di pane, un vestito, un po’ di calore. Parlare del genocidio vuol dire prestare attenzione anche alle nazioni che oggi sono sotto la minaccia dello sterminio, che vivono in contesti regionali difficili, che non hanno un proprio stato o un esercito per difenderle e che hanno difficoltà a trovare uno sbocco nei media internazionali.
Noi non staremo in silenzio, in memoria di quelli che non hanno mai taciuto quando noi attraversavamo quel momento.