Il genocidio armeno. Tenere viva la memoria per combattere il negazionismo


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“La negazione è l’ultimo atto di un genocidio, la demonizzazione è il primo”. Sargis Ghazaryan, giovane ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia, colloca lo sterminio del popolo armeno del 1915 in una dimensione attuale e lo fa con uno sguardo rivolto alla Turchia e all’Azerbaijan, due stati che continuano ad avere una politica aggressiva nei confronti di Yerevan. Il primo è accusato di negare un crimine che i libri di storia oramai certificano come il primo genocidio dell’era moderna, di farlo con tutti i mezzi a disposizioni, con il disprezzo tipico di non voler riconoscere di essere stato l’artefice di un massacro che produce degli effetti ancora oggi. Ne sono un esempio anche le chiese e i monasteri chiusi, luoghi di culto sbarrati a chiunque, perché l’intento è di nascondere la verità e di impedire che le persone ne possano parlare.

Sotto questo profilo, evidenzia Ghazaryan, c’è una scollatura tra il governo di Ankara (guidato dal partito del presidente Erdogan) e l’opinione pubblica turca che invece si mostra interessata ad aprire un dibattito e a riconoscere un crimine che ancora oggi pesa sulla coscienza di un popolo che vorrebbe chiudere in modo definitivo questa pagina nera. Ma non c’è solo la negazione a rendere orribile un crimine. C’é anche la demonizzazione, atto iniziale di ogni azione criminale. Ne è ben consapevole l’ambasciatore armeno in Italia quando parla dei difficili rapporti con l’Azerbaijan, guidata “da un dittatore che si preoccupa di minacciare con le armi la popolazione armena”. Per questa ragione non è mai troppo tardi parlare di genocidio, soprattutto alla presenza di relazioni diplomatiche e politiche che possono dar vita a una nuova guerra e a causare nuove morti.

Il genocidio armeno è entrato con prepotenza nell’agenda del Centro Italo Arabo. Nel 2015 si celebrerà il centenario di questo evento e Assadakah ha deciso di dedicare gran parte dei propri sforzi al ricordo di questa pagina nera di storia. Nel corso del II Meeting Internazionale delle politiche del Mediterraneo si è dunque affrontato il problema di come tener viva la fiamma della memoria di un crimine poco conosciuto anche in Italia.  L’importante è interrompere il “circolo vizioso dei silenzi”. Assadakah ha rinnovato l’invito, rivolto alle Nazioni Unite e al Parlamento Europeo, di dichiarare il 2015 anno della memoria e della coscienza. Un riconoscimento formale cui non si dovrebbe sottrarre neppure l’Italia che l’anno prossimo sarà protagonista di una serie di eventi dedicati proprio al tema del genocidio. Il coinvolgimento delle scuole e degli studenti sarà l’occasione per riportare alla luce un evento che è considerato il paradigma di tutti i crimini contro l’umanità.

Il Centro Italo Arabo sarà impegnato anche su un altro fronte: la scrittura di un libro con le straordinarie testimonianze di tre sopravvissuti del genocidio. Un racconto che rappresenta un ponte tra il passato e il futuro, una cerniera che unisce la memoria individuale con la coscienza collettiva del popolo. Un progetto, hanno rilevato Raimondo Schiavone e Alessandro Aramu, che non potrà fare a meno di evidenziare l’attuale condizione di vita dei cristiani in Medio Oriente e le persecuzioni che gli armeni subiscono ancora oggi in Siria per mano dei terroristi dell’ISIS e dei miliziani di al Nusra.

Il giornalista libanese Talal Khrais ha ricordato come il villaggio armeno di Kessab, in Siria, sia stato attaccato e svuotato dai gruppi jihadisti con la complicità della Turchia. Centinaia di famiglie di origine armena sono state costrette ad abbandonare le proprie case e i luoghi di culto cristiani sono stati devastati. Dopo una dura battaglia, l’esercito arabo siriano ha liberato il villaggio e la popolazione è ritornata finalmente a condurre una vita normale. Come cento anni fa, anche questa volta i turchi hanno giocato un ruolo decisivo.

Sarà per questo che l’ambasciata turca in Italia ha inviato una comunicazione riservata al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda, per invitarlo a non prendere parte alla sessione dedicata dal genocidio. Una richiesta non accolta dal primo cittadino del capoluogo sardo che ha ricordato come la pacificazione tra i popoli passi necessariamente attraverso il riconoscimento delle proprie responsabilità, soprattutto quando hanno a che fare con i crimini contro l’umanità.

Khrais ha criticato duramente “il sultano Erdogan” accusato di utilizzare la guerra in Siria per far fuori i suoi nemici, a partire dal popolo armeno. Poche settimane fa i terroristi dello Stato islamico hanno distrutto la chiesa armena dei Martiri situata nella città siriana di Deir Ezzor, particolarmente importante per gli armeni poiché includeva al suo interno un monumento commemorativo del genocidio e un mausoleo con i resti delle vittime delle atrocità turche. Si tratta di un luogo significativo perché centinaia di migliaia di persone sono morte a Deir Ezzor e nei deserti circostanti dopo essere stati deportati dai turchi.

Un altro giornalista siriano, Naman Tarcha, ha ricordato la storia della nonna armena costretta ad abbandonare la sua terra per sfuggire ai massacri turchi. Ad Aleppo, dove oggi risiede la più importante comunità siriana di origine armena, poté ricostruirsi una vita. Oggi la stessa città e in particolare il quartiere armeno (Midan) sono assediati e presi di mira dai gruppi terroristi. La vita è sempre più difficile, manca l’acqua, la corrente elettrica e, spesso, il cibo. I negozi sono sventrati, i palazzi crollati, i muri crivellati di colpi  e i ribelli  continuano a bersagliarlo con missili, colpi di mortaio e con le bombole del gas. Così vivono i cristiani e gli armeni ad Aleppo e a parlarne sono rimasti soltanto pochi giornalisti, come Gian Micalessin instancabile reporter che rischia la propria vita per raccontare quello che molti non vogliono vedere.

Una chiave di lettura storica è stata data da Nicola Melis, ricercatore dell’Università di Cagliari, che ha ricordato come la presenza armena nell’impero ottomano in certi momenti storici fosse essenziale per la vita stessa dell’impero, tanto che la comunità veniva considerata la più fedele allo Stato. L’emergere del nazionalismo fu devastante non solo per la tenuta dell’impero, in cui convivevano varie etnie e religioni, ma anche per le sorti della comunità armena. Il nazionalismo turco, l’ultimo in ordine di tempo, e la deriva autoritaria furono particolarmente feroci nei confronti di questa minoranza che non poteva avere più spazio in uno stato “islamico e turco”.

Melis ha poi ricordato che tra i negazionisti occupano un posto di rilievo importanti esponenti dell’establishment di Israele o intellettuali dell’ebraismo internazionale per una sorta di volontà di “monopolizzare la sofferenza, in quanto il genocidio è solo quello ebraico mentre gli altri vanno negati”.

Aram Ananyan, direttore di ArmenPress, l’agenzia di stampa nazionale, ha infine ricordato la storia di Aharon Manukyan, classe 1914, sopravvissuto al genocidio. Oggi questo centenario parla attraverso le parole della figlia. L’orfanotrofio americano in Leninakan divenne la sua casa.  A un anno di età, infatti, fu costretto ad abbandonare la sua abitazione nel cortile di una chiesa a Van. La città oppose una strenua resistenza contro le truppe turche. Durante l’eroica difesa di Van, il padre di Aharon morì. Dopo aver preso i figli per un breve periodo, la madre decise di andare a Etchmiadzin per trovare un lavoro. La storia di Aharon è la storia di tanti bambini costretti a vivere senza i genitori, spesso in un orfanatrofio dove gli affetti spezzati sono stati ricostruiti con fatica. Anche grazie a persone come uno dei responsabili di quell’orfanotrofio che, dopo aver perso il suo unico figlio, dedicò tutta la sua vita al popolo armeno.

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