
(Federica Cannas) – Quando nel 1989 il Muro di Berlino cadde, ci dissero che era finita un’epoca. Il comunismo si sgretolava sotto i colpi della storia, e l’Occidente – o meglio, ciò che ne restava dopo la Guerra Fredda – festeggiava la propria vittoria come se fosse la fine di ogni conflitto. La fine della storia, ci disse qualcuno.
Da lì in avanti, si pensava che sarebbe bastato accompagnare il progresso, consolidare le democrazie liberali, diffondere diritti e prosperità. Sembrava che il mondo avesse finalmente scelto una direzione chiara. E tra i protagonisti di quella svolta storica, c’era anche Papa Wojtyła, la voce che aveva rappresentato per molti la resistenza spirituale all’impero sovietico. Con il suo carisma, la forza del suo messaggio e un anticomunismo profondo, Giovanni Paolo II divenne una figura di riferimento globale, capace di parlare a milioni di persone e di dare forma, anche simbolica, a un’epoca che stava cambiando.
Ma pochi, in quegli anni e ancor meno oggi, hanno avuto il coraggio di dire che quella vittoria aveva un prezzo. E che la lettura del mondo che ne è derivata era, nella migliore delle ipotesi, parziale.
Perché è vero che Wojtyła parlava ai popoli, ma non a tutti allo stesso modo.
È indubbio che abbia avuto un ruolo determinante nel crollo del comunismo, soprattutto in Europa dell’Est. È stato un simbolo forte, un punto di riferimento per i movimenti democratici e antisovietici.
Ma altrove – in particolare in America Latina – la sua voce si fece più severa, meno attenta a quei movimenti religiosi e popolari che, dentro e fuori la Chiesa, cercavano una via alla giustizia sociale capace di restare fedele al Vangelo ma anche sensibile ai bisogni concreti degli ultimi.
Di fronte alla Teologia della Liberazione, che coniugava spiritualità e impegno civile, Wojtyła mostrò diffidenza.
Scelse di guidare una Chiesa fortemente ancorata alla dottrina, meno propensa a lasciarsi coinvolgere dalle spinte sociali che emergevano dal basso, soprattutto in contesti segnati da profonde disuguaglianze.
Nel socialismo vide soprattutto un rischio per la fede e la libertà, senza forse coglierne – in alcune sue declinazioni – la tensione verso la giustizia e la dignità umana. Così facendo, contribuì a rafforzare una visione dell’Occidente come spazio di verità e di vittoria, ma forse meno capace di ascolto e di pluralismo.
Non fu un Papa indifferente, né privo di sensibilità. Ma fu, senza dubbio, un uomo del suo tempo, e in quel tempo le priorità erano altre. In nome di una verità assoluta, si chiusero troppe porte al dialogo. E oggi, guardando a ciò che il mondo è diventato, viene da chiedersi se proprio in quegli anni si sia persa un’occasione preziosa per costruire un equilibrio diverso, più giusto e più umano.
Quella visione ha avuto effetti devastanti. Negli anni successivi, l’Occidente ha creduto di poter ridisegnare il mondo a propria immagine e somiglianza. La NATO si è allargata, il mercato ha colonizzato ogni spazio, e chi non si allineava veniva neutralizzato. Prima ideologicamente, poi militarmente.
Yugoslavia, Iraq, Afghanistan, Libia, Siria. Guerre umanitarie, esportazioni di democrazia, distruzioni chirurgiche. Sempre con l’alibi della civiltà. Sempre contro qualcuno che non accettava il copione.
Nel frattempo, Israele diventava l’avamposto armato dell’Occidente in Medio Oriente, sostenuto economicamente, diplomaticamente e moralmente da Stati Uniti ed Europa. E la Palestina scompariva. Lentamente, ma inesorabilmente. Scompariva dai radar politici, dalle mappe, dai titoli di giornale. Ma soprattutto scompariva dalla coscienza collettiva, come se fosse un fastidio ideologico, una nota stonata nella sinfonia del progresso.
Oggi Gaza è il punto di non ritorno. È il fallimento di tutto questo ordine mondiale costruito sulle rovine del Muro. Un popolo ridotto in macerie, bombardato senza sosta, privato persino del diritto di piangere i propri morti, sotto gli occhi di un’Europa muta e di un’America che si indigna solo quando viene colpita l’“altra parte”. Gaza è la nudità della verità: non c’è giustizia, non c’è equilibrio, non c’è più nemmeno ipocrisia sufficiente a coprire l’orrore.
E mentre Israele colpisce anche l’Iran in un’escalation che potrebbe infiammare l’intero Medio Oriente, l’Occidente si guarda allo specchio e non si riconosce più. Credeva di guidare il mondo, e invece è solo uno dei giocatori. Ma soprattutto, ha smarrito il linguaggio per parlare al resto del pianeta.
L’attacco a una nazione sovrana, compiuto con una disinvoltura che sfida ogni norma del diritto internazionale, non è solo un atto bellico: è il sintomo di una visione arrogante e unilaterale, dove alcuni possono tutto e altri non possono nulla. Israele, che possiede un arsenale nucleare mai dichiarato né sottoposto ad alcun controllo, pretende che altri – l’Iran in primis – rinuncino a ogni ambizione in campo atomico. Nessun equilibrio può reggersi sul principio che la forza appartenga solo ad alcuni, mentre agli altri è negato anche il diritto di difendersi.
L’Iran ha il diritto di non soccombere a una logica di dominio che legittima chi bombarda e condanna chi resiste. La doppia morale dell’Occidente, che difende Israele anche di fronte all’indifendibile, ha minato la sua credibilità globale. Non si può più parlare di diritto internazionale, se lo si invoca solo quando conviene. Non si può pretendere stabilità, se si alimenta il fuoco di una guerra che uccide i civili, silenzia ogni mediazione, e rende impossibile ogni forma di pace.
Perché nel frattempo, qualcosa è cambiato. Un nuovo mondo ha preso forma. Non più diviso in due blocchi ideologici, ma attraversato da molteplici direzioni, visioni, interessi. La Russia di Putin ha imposto con determinazione la propria agenda, facendo valere i propri interessi strategici senza curarsi troppo delle regole scritte dall’Occidente. La Cina, con un modello capace di crescita e influenza globale, si propone come alternativa credibile al neoliberismo e al primato angloamericano. L’India cerca una posizione autonoma, non allineata, attenta ai propri equilibri. E in America Latina, con il ritorno dei governi progressisti in Brasile, Colombia, Cile e Uruguay, si afferma un’idea diversa di sviluppo, cooperazione, multipolarismo.
Non si tratta di utopia. Ma di una nuova realtà geopolitica, che chiede di essere riconosciuta e compresa. E che sempre più spesso parla un linguaggio che l’Occidente non è più in grado di decifrare.
L’Occidente ha perso credibilità. E lo ha fatto perché ha confuso la libertà con la potenza, il diritto con la forza, il bene con la convenienza. E oggi non è più in grado di parlare con i popoli. Non con quelli che vivono a Gaza. Non con quelli che resistono in Iran. Non con quelli che in America Latina sognano un mondo più giusto. Non con quelli che, anche dentro le nostre democrazie stanche, si sentono abbandonati.
La caduta del Muro non ha segnato la fine della storia, ma solo la fine di un ordine che oggi sta implodendo. E chi non ha avuto il coraggio di vederlo – dalla politica alla Chiesa, dai governi ai media – ha contribuito a costruire il mondo cinico e violento in cui oggi viviamo. Un mondo che si credeva invincibile. E che ora non sa come fermare l’incendio che lui stesso ha acceso.
Non è troppo tardi per cambiare. Ma servono parole nuove, alleanze nuove, e soprattutto una coscienza diversa. Più coraggiosa, più onesta, capace di riconoscere gli errori compiuti e le sofferenze ignorate. Il futuro non si costruirà sulle ceneri di Gaza, né sulle bombe lanciate contro l’Iran. Non nascerà dalla sopraffazione, né dall’indifferenza.
Il futuro – se ci sarà – potrà cominciare solo quando sapremo abbattere il muro che ci separa non solo dalla verità, ma dalla giustizia, dalla memoria, dall’umanità condivisa. Solo allora sarà possibile immaginare un mondo davvero diverso. E più degno.