(LETIZIA PILI) – Il cinema iraniano ha subito profonde trasformazioni a seguito della rivoluzione islamica del 1979, specialmente nella rappresentazione della donna e del suo ruolo nella società. Una delle prime conseguenze della rivoluzione fu l’imposizione del velo alle donne, parte delle restrizioni attuate dalla Repubblica Islamica per esercitare il controllo sul corpo femminile e sulla sua rappresentazione. Nonostante queste limitazioni, il cinema rappresenta uno spaccato della società iraniana contemporanea e offre agli spettatori internazionali una finestra nel panorama socio-culturale dell’Iran. Durante gli anni delle riforme moderate del presidente Mohammad Khatami (1997-2005), registe come Rakhshan Bani-Etemad, Puran Derakhshandeh e Tahmineh Milani iniziarono a produrre opere che avrebbero lasciato il segno. La critica internazionale non tardò a riconoscere l’importanza di questo fermento culturale, tanto che nel 1998 l’industria cinematografica iraniana fu classificata al decimo posto nel mondo, superando nazioni come l’Egitto, la Turchia e persino paesi occidentali come la Germania e il Canada.
Il cinema iraniano ha acquisito così una posizione di rilievo nel panorama internazionale, affermandosi non solo come espressione artistica, ma anche come potente veicolo di riflessione sociale e culturale. Nonostante le restrizioni politiche e le difficoltà affrontate dai cineasti all’interno del paese, i registi iraniani sono riusciti a portare sul grande schermo storie profonde e complesse, spesso legate ai temi della vita quotidiana, delle questioni sociali e dell’identità. Questa capacità di coniugare contenuti universali con uno stile cinematografico unico ha permesso al cinema iraniano di raccogliere consensi in prestigiosi festival internazionali.
Un esempio emblematico è il successo di Asghar Farhadi, il cui film Una separazione ha vinto l’Oscar come Miglior Film Straniero nel 2012, un traguardo storico per il cinema iraniano. Lo stesso Farhadi ha vinto nuovamente l’Oscar nel 2017 con Il cliente, confermando la rilevanza del cinema iraniano sulla scena mondiale. Oltre agli Oscar, i film iraniani hanno conquistato importanti riconoscimenti nei principali festival del cinema: Abbas Kiarostami, uno dei pionieri del cinema d’autore iraniano, ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 1997 con il film Il sapore della ciliegia, mentre Il cerchio di Jafar Panahi ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 2000. Questi premi, tra gli altri, hanno consolidato il cinema iraniano come un’espressione artistica globale, capace di raccontare storie dal forte impatto umano e sociale, che superano i confini geografici e culturali.
Le pioniere del cinema femminista iraniano: Bani-Etemad, Derakhshandeh e Milani
Rakhshan Bani-Etemad, spesso considerata la “madre” del cinema iraniano femminista, ha affrontato questioni sociali ed economiche nei suoi film, con un occhio critico verso l’oppressione delle donne. Un esempio è Nargess (1992), in cui esplora la vita di donne provenienti da ambienti urbani marginalizzati, dando voce a coloro che solitamente sono invisibili nella società. Il suo cinema è uno specchio delle lotte quotidiane di molte donne iraniane, costrette a sopravvivere in un contesto di oppressione sociale e patriarcale.
La regista Tahmineh Milani, invece, ha osato sfidare apertamente i tabù della censura politica con film come The Hidden Half (2001), che esplora la censura e la repressione politica attraverso la storia di una donna che rivela i segreti del suo passato. Milani, con il suo stile provocatorio, ha messo in luce l’ipocrisia sociale e politica che circonda le donne iraniane, e il suo lavoro ha portato a dure critiche da parte delle autorità, portandola persino ad affrontare accuse e arresti.
Puran Derakhshandeh, un’altra importante cineasta, ha trattato nei suoi film temi come la salute mentale e la violenza domestica, questioni che rimangono spesso un tabù in Iran. Il suo film Hush! Girls Don’t Scream (2013) affronta il tema dell’abuso sessuale, mettendo in evidenza come le donne iraniane affrontino una costante lotta per ottenere giustizia.
Nel contesto del cinema iraniano, si inserisce quindi un importante filone femminista, che negli ultimi decenni ha visto l’emergere di registe e autrici impegnate nella rappresentazione delle donne e delle loro lotte per i diritti. Le cineaste iraniane, come Samira Makhmalbaf, Marzieh Meshkini e Shirin Neshat, hanno spesso sfidato apertamente le rigide norme patriarcali della società iraniana, denunciando le oppressioni e le ingiustizie subite dalle donne. Samira Makhmalbaf, figlia del celebre regista Mohsen Makhmalbaf, ha fatto il suo debutto a soli diciotto anni con il film La mela, presentato a Cannes nel 1998, e ha continuato a riscuotere successo con Lavagne, che ha vinto il Premio della Giuria a Cannes nel 2000. La sua opera esplora la condizione delle donne, le loro speranze e frustrazioni, in un contesto sociale dominato dalla repressione e dal controllo.
Un’altra figura di spicco è Shirin Neshat, artista visiva e regista che ha ottenuto fama internazionale con il suo film Donne senza uomini, vincitore del Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009. La pellicola affronta temi come l’identità femminile, la politica e la religione, attraverso una narrazione poetica e visivamente potente. Le registe iraniane spesso lavorano in condizioni di censura e sotto la costante minaccia di repressione da parte delle autorità, ma, nonostante ciò, riescono a produrre opere di grande valore artistico e politico, che continuano a risuonare sia a livello nazionale che internazionale.
Il cinema non femminista: Kiarostami, Farhadi, Abyar e Gheidi
Nonostante l’importanza delle registe femministe, anche i registi uomini hanno dato un contributo significativo alla rappresentazione della condizione femminile. Abbas Kiarostami e Asghar Farhadi sono due nomi di rilievo in questo contesto. Kiarostami, pur non essendo esplicitamente femminista, ha offerto nei suoi film ritratti complessi di donne. In The Wind Will Carry Us (1999), ad esempio, il personaggio femminile principale è quasi assente fisicamente, ma la sua presenza pervade l’intera narrazione, mettendo in luce il controllo e il silenzio imposto sulle donne.
Asghar Farhadi, invece, ha trattato la condizione femminile con maggiore immediatezza, presentando donne che lottano contro il sistema patriarcale, come avviene in A Separation (2011). Anche se Farhadi non è propriamente un regista femminista, le sue protagoniste si trovano spesso al centro di dilemmi morali e sociali, affrontando in prima persona le ingiustizie del sistema. I suoi film esplorano la complessità delle relazioni umane e, indirettamente, la condizione femminile in Iran.
Un altro esempio di questo paragrafo è una regista donna, Narges Abyar, che però, a differenza delle sue colleghe precedentemente nominate, rappresenta il lato ideologico del cinema iraniano. Il suo film When the Moon Was Full (2019) è il secondo dramma più venduto nella storia del cinema iraniano. Alcuni critici hanno suggerito che si tratti di una produzione perfettamente commissionata dal governo iraniano.
Inoltre, tra le registe filogovernative troviamo Monir Gheidi, che si sta facendo notare nel panorama cinematografico iraniano grazie ai suoi cortometraggi e documentari. Gheidi si distingue per il suo stile intimo e realistico, spesso concentrato su storie che esplorano le sfide della vita quotidiana in Iran, con una particolare attenzione alle dinamiche sociali e alle relazioni umane. Il suo lavoro riflette un’attenzione alle tematiche sociali, ma senza scivolare in aperta opposizione alle autorità, mantenendo un equilibrio tra narrazione critica e rispetto per i limiti imposti dalla censura.
Il cinema femminista contemporaneo
Negli ultimi anni, una nuova generazione di registe iraniane ha raccolto l’eredità lasciata dalle pioniere del cinema femminista, contribuendo a ridefinire la narrazione femminile in Iran. Queste cineaste, pur operando in un contesto politico e sociale diverso rispetto agli anni immediatamente successivi alla rivoluzione islamica, affrontano ancora molte delle stesse sfide, come la censura, la repressione e le restrizioni sociali. Tuttavia, grazie ai nuovi strumenti digitali, all’evoluzione della distribuzione internazionale e al crescente interesse globale per le voci femminili iraniane, stanno trovando modi creativi per esplorare temi complessi legati all’identità di genere, alla libertà e alla resistenza sociale.
Una delle figure più rilevanti di questa nuova generazione è Ida Panahandeh, che nel suo acclamato film Nahid (2015) affronta la difficile realtà delle donne divorziate in Iran. Il personaggio principale, Nahid, lotta per ottenere l’affidamento del figlio in una società che pone molteplici barriere legali e sociali alle donne che escono da un matrimonio. La sua opera si distingue per la capacità di bilanciare l’analisi delle questioni personali e familiari con una più ampia critica delle strutture patriarcali, riflettendo così su come le leggi iraniane influenzino la vita quotidiana delle donne. Panahandeh è riuscita a raccontare storie di oppressione femminile senza cadere negli stereotipi, mantenendo una complessità e una sensibilità che le hanno garantito il riconoscimento sia in Iran che nei festival internazionali.
Un’altra regista emergente è Anahita Ghazvinizadeh, che con il suo approccio più sperimentale esplora temi di identità di genere e infanzia, come dimostrato nel film They (2017). La pellicola racconta la storia di un adolescente che si trova a confrontarsi con il proprio corpo e la propria identità sessuale, affrontando dilemmi legati alla transizione di genere. They offre una narrazione profondamente intima e personale che non solo tocca questioni di genere, ma si collega a un discorso più ampio sull’identità in una società repressiva. Ghazvinizadeh è una delle prime registe iraniane a trattare apertamente tali argomenti, espandendo i confini di ciò che può essere discusso nel cinema iraniano contemporaneo.
Il cinema iraniano, femminista e non, continua a essere un potente strumento di riflessione sociale e culturale. Le cineaste iraniane, da pioniere come Rakhshan Bani-Etemad e Tahmineh Milani, fino alle nuove voci come Ida Panahandeh e Anahita Ghazvinizadeh, hanno mostrato una straordinaria capacità di navigare attraverso le rigide restrizioni imposte dalla censura, dando vita a opere che riflettono la complessità della condizione femminile in Iran. Con le loro narrazioni intime e universali, queste registe offrono al pubblico mondiale un quadro più sfaccettato e umano della lotta per i diritti delle donne, contribuendo a plasmare un discorso globale sulle questioni di genere e sulle libertà individuali.