Intervista allo scrittore e sociologo italo-argentino Nicola Viceconti su totalitarismo e regimi di “massa”


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di Maddalena Celano

Sempre più spesso alcuni organi di informazione chiamano in causa il pensiero politico filosofico di Hannah Arendt. Può dirci qualcosa in merito?

Effettivamente si registra un interesse particolare per il pensiero di Hannah Arendt. I media dedicano articoli e servizi sulla studiosa tedesca e i personaggi politici, di qualsiasi schieramento, ne citano alcune espressioni. Il ricorso al suo pensiero, fino a poco tempo fa studiato e approfondito principalmente in ambito accademico, trova oggi una sua collocazione anche nel vasto pubblico. Il 27 gennaio del 2014, ad esempio, in occasione della giornata della memoria, è uscito nelle sale italiane un film di Margarethe Von Trotta, dedicato ad Hannah Arendt. La storia raccontata nel film ripercorre il periodo in cui la Arendt, durante il processo ad Adolf Eichmann, difende strenuamente attraverso i suoi scritti la propria posizione nei confronti del criminale di guerra nazista.

Il più delle volte, però, la diffusione del pensiero Arendtiano è oggetto di interpretazioni incomplete e/o superficiali, fraintendimenti, se non vere e proprie manipolazioni. Sul Totalitarismo ad esempio – argomento affrontato da Arendt, a seguito di un’attenta rivisitazione della storia europea dalla seconda metà del XIX secolo fino alla seconda guerra mondiale, e il cui obiettivo principale era delineare un “tipo ideale” di regime totalitario in base all’ideologia, al terrore e all’esistenza del partito unico – si assiste a un uso improprio sia della terminologia, sia della concezione teorica alla base di ciò che l’autrice sosteneva ne “Le origini del totalitarismo” pubblicato nel 1951. Vale la pena ricordare che lo studio in questione è stato sviluppato a seguito di un’attenta riflessione sull’antisemitismo, sull’imperialismo e sul nuovo concetto di massa. Per Arent, la caratteristica saliente del totalitarismo era l’esistenza di campi di concentramento, in grado di generare e mantenere il terrore, elemento fondamentale dei governi totalitari (essendo stata pubblicata in piena guerra fredda, la sua opera fa un preciso riferimento alla Germania nazista e alla Russia stalinista). Il totalitarismo è dotato di una precisa identità ed è “essenzialmente diverso da altre forme conosciute di oppressione politica come il dispotismo, la tirannide e la dittatura”. Sempre secondo la studiosa, la differenza fondamentale con altre forme di potere-controllo, sta nella creazione di istituzioni nuove e nella distruzione di qualsiasi tradizione sociale, giuridica e politica di un determinato Paese. Il totalitarismo, pertanto, prevede una intromissione totalizzante nella sfera delle persone che vengono di fatto assorbite e annullate. La penetrazione avviene in ogni settore della società e in tutte le dimensioni della vita quotidiana e ha come obiettivo l’eliminazione drastica di ogni forma di autonomia nonché l’indottrinamento delle coscienze individuali. A prescindere dalla ideologia, che resta il principio di azione del totalitarismo, la riuscita del processo si realizza inevitabilmente con la trasformazione delle classi sociali in “massa”, l’abolizione del sistema dei partiti, l’attuazione di una politica estera di colonizzazione e dominio e l’alienazione dell’uomo fino a ridurlo a una macchina. Per Arent il totalitarismo, dunque, è una nuova espressione politica con caratteristiche ben precise, un’evoluzione intrinseca allo sviluppo della società moderna e non un avvenimento storico imprevedibile. La classificazione di una forma di governo come “totalitario” deve soddisfare i requisiti descritti. Definire una forma di governo totalitaria in assenza di tali elementi, può tradursi in una forzatura concettuale.

Nel corso delle presentazioni dei suoi romanzi ha più volte fatto riferimento alla banalità del male di Hannah Arent. In che modo rientra tale concetto nella sua narrativa?

Tre dei quattro romanzi pubblicati fino a oggi affrontano tematiche sociali di grande impatto emotivo: il dramma dei desaparecidos argentini e l’operazione Odessa, una delle vicende più misteriose della storia del nazismo. In entrambi i casi ho trovato utile avvalermi del concetto della banalità del male per tentare di fornire una risposta a una semplice domanda: Perché è accaduto?

Sulla triste vicenda dei desaparecidos lo stesso interrogativo se lo è posto Giancarlo Maniga, l’avvocato che ha assistito i familiari delle vittime nei processi dello Stato italiano contro i militari argentini: “Perché tanta crudeltà spinta oltre ogni limite immaginabile? Come vivevano nel loro quotidiano gli esecutori materiali di mansioni così degradanti e criminali? …/… Difficile immaginare altri esempi di pianificata consuetudine al crimine” segue Maniga “I torturatori argentini non erano un gruppo ristretto. Erano tanti e subordinati in una routine di azioni diversificate ma ripetitive, reiterate per mesi, anni. Avranno mai avuto un dubbio durante quelle pratiche? Quale stimolo li spingeva a compiere simili brutalità?”.

Nel corso delle numerose visite nei Centri clandestini di detenzione ho avuto modo di ascoltare le testimonianze di alcuni esiliati scampati miracolosamente alla dittatura. Anche con loro ho cercato di trovare le risposte a domande nate spontaneamente dalla necessità di trovare un significato alle cose quando di queste cose non esiste un significato apparente. Si tratta delle esperienze distruttive di ogni società, quelle che hanno portato morte, lutti e disperazione. Mi sono anche chiesto se la risposta giusta potesse riscontarsi nell’ideologia, nella detenzione del potere politico o in quello economico. Ci si chiede spesso, di fronte alle tragiche vicende accadute, se il perpetuarsi di taluni sistemi siano dovuti al fatto che i responsabili erano semplicemente dei sadici e malati di mente. Alla fine ho trovato nella spiegazione di Arent la conclusione: questi uomini operavano malvagiamente principalmente per banale e quotidiana routine. Così facendo producevano e reiteravano il “male” per ottusa e acritica assuefazione. In primo luogo, quindi, non l’ideologia, l’odio, l’impeto o la passione, ma solo una routine di nefandezze, giustificata da ordini superiori ottusi, ritrasmessi e accolti acriticamente dai subalterni con pari ottusità.

Nel caso della dittatura argentina il ricorso al concetto “banalità del male” è funzionale al tentativo di comprensione del comportamento di persone dotate di potere (militari e complici del regime), capaci di commettere in modo sistematico e premeditato lo sterminio di un’intera generazione. Tale concetto trova la sua origine nell’analisi che la filosofa ha svolto durante la vicenda giudiziaria del nazista Eichmann, alla quale era stata inviata come corrispondente di una rivista americana. Alla fine del processo, Arendt giunse alla conclusione dell’assoluta normalità dell’accusato e, proprio per questo, della “pericolosa potenza di disumanizzazione” capace di ridurre l’umano a un mero ingranaggio.

Nei romanzi “Due volte ombra” e “Nora Lopez-Detenuta n84” vengono descritte brevi scene di tortura sui detenuti all’interno della famigerata “ESMA” o nel centro clandestino di detenzione “Club Atletico”. Secondo il suo punto di vista, avrebbero potuto sottrarsi i militari argentini ai propri doveri che implicavano la tortura, l’assassinio o altre simili brutalità?

Se i responsabili di tali crimini avessero mantenuta viva la capacità di pensare e, conseguentemente, la facoltà di poter decidere di sottrarsi a tali ordini, senza dubbio l’evoluzione dei fatti storici sarebbe stata diversa. Purtroppo, l’intero sistema con la sua banalità del male si è dimostrato capace di azzerare nelle persone coinvolte la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato e, quindi, le loro implicazioni morali. Sono convinto che i militari argentini che hanno preso parte al piano sistematico di desapariciòn (sparizione forzata di persone contrarie al regime), analogamente a Eichmann, hanno compiuto azioni mostruose, pur essendo pressoché normali, ne demoniaci ne mostruosi “erano uomini perfettamente normali che compivano atti mostruosi”. La personalità di Eichmann, come quella di tanti ufficiali nazisti o dei torturatori argentini, è caratterizzata dall’essere superficiale, mediocre, non pensante. L’esperto di questioni ebraiche per eccellenza, infatti, ha sempre agito all’interno degli ordini e dei poteri di una rigida gerarchia militare. Si è trattato dunque di una cieca obbedienza. Né perverso e né sadico ma uomo terribilmente normale. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché – sempre secondo Arendt – implica “un nuovo tipo di crimine dove gli artefici del male agiscono in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce il male”.

A tale proposito ho trovato molto interessante il discorso finale che la scrittrice rivolge ai suoi studenti, nel film “Hannah Arendt” della Von Trotta, per definire la banalità del male. Il male più terribile al mondo – secondo la filosofa – è il male commesso dai cosiddetti signor nessuno. Si tratta di un male che viene commesso da uomini senza veri moventi, senza grandi convinzioni o menti diaboliche, bensì da “esseri umani che si rifiutano principalmente di essere delle persone”.

Esiste un antidoto a tutto ciò?

Arent era una pensatrice libera e nella sua analisi ha applicato in modo radicale una sorta di autonomia di pensiero che risulterà scomoda alla comunità ebraica americana. Era affascinata dal concetto del Selbstdenken (il “pensare da sé”) del pensatore tedesco Lessing, secondo il quale “il pensiero non nasce dall’individuo e non è la manifestazione di un sé, piuttosto è l’individuo che si apre al pensiero perché in esso scopre un altro modo di muoversi liberamente nel mondo”.

Credo che proprio in questo passaggio possiamo rintracciare un antidoto efficace all’assuefazione di qualsiasi costrizione. Un rimedio a questo male è possibile se consideriamo il pensiero come “quella conversazione, quel silenzioso dialogo che esiste tra me e me stesso”. La facoltà di pensare consente all’uomo di aprire un dialogo con se stesso e di esprimere un giudizio sui fatti che lo circondano. Solo così si evita di aderire ad una morale sociale senza esercitare la capacità di riflettere. In altre parole la manifestazione del pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l’uomo a riflettere e a pronunciare un giudizio. Solo in questo modo, secondo Arendt, si arriva all’esatto significato della comprensione: “comprendere significa esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle… non negarne l’esistenza… comprendere significa affrontare la realtà qualunque essa sia”.

La bellezza del mondo dalle sue brutture. E quindi voglio sperare che pensare possa donare alle persone la forza di saper prevenire terribili catastrofi in questi rari momenti in cui sopraggiunge la resa dei conti.

 

Sitografia

http://www.riflessioni.it/enciclopedia/arendt.htm

http://www.kainos.it/numero3/ricerche/durst.html

http://www2.units.it/etica/2008_1/ARGENIO.pdf

https://www.youtube.com/watch?v=PEF…

 

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