(Carla Melis) – “Per continuare a fare questo mestiere bisogna aver ben chiaro perché lo si è intrapreso”. Luca Sola, classe 1977, da diversi anni racconta il Medioriente, l’Africa e l’Italia attraverso l’obiettivo della sua fotocamera. I suoi reportage sono apparsi sui maggiori quotidiani e magazine. È autore del libro “LIBIA. Appunti di guerra” (2012 Postcart edizioni).
Come ha iniziato il suo lavoro da fotogiornalista?
Faccio questo mestiere da 10 anni, ormai. Ho sempre nutrito una grande passione per la fotografia, ma non avevo mai avuto la possibilità di dedicarmi a tempo pieno e tanto meno a livello professionale fino al 2010. In quell’anno ho deciso di frequentare un corso in fotogiornalismo presso l’ISFCI a Roma. E’ stata una scelta utile ed in qualche modo decisiva; qui, infatti, oltre alle conoscenze tecniche, ho avuto la possibilità di avere contatti importanti. Ho collaborato soprattutto con il fotogiornalista Marco Longari e da questa conoscenza sono nate le prime esperienze sul campo.
Dove?
La prima esperienza l’ho potuta fare proprio insieme a Longari, in Israele e in Palestina. È un grande classico cominciare da qui e si tratta di un ottimo posto dove fare gavetta, perché sia in Israele che in Palestina si può assistere quotidianamente a dei conflitti a bassa intensità. Poi ci sono state le primavere arabe e la Libia. In quest’ultimo paese ci sono stato tre volte, ma soprattutto sono stato uno dei primi a entrare subito dopo lo scoppio del conflitto. Il reportage ha avuto molto successo ed è stato un trampolino di lancio per la mia carriera. Dal mio lavoro in Libia è stato tratto anche un libro, “Libia. Appunti di guerra”.
Un mestiere che può portare dei successi.
Non solo. Il nostro lavoro gioca anche un altro ruolo. Attraverso i nostri reportage nelle zone di conflitto abbiamo, volenti o nolenti, un’influenza sulla politica e sull’opinione pubblica. Questo avviene quando si modifica la percezione di chi guarda le foto rispetto agli eventi immortalati e questa percezione viene accolta dalla politica e rimandata indietro sottoforma di decisione politiche, ad esempio di sanzioni. Noi fotogiornalisti, però, non decidiamo cosa verrà pubblicato del nostro lavoro inviato ai canali di distribuzione, non abbiamo il pieno controllo sul nostro lavoro, per quello dico che abbiamo un’influenza anche al di là del nostro volere. Questa sorta di potere della fotografia ha delle conseguenze soprattutto sullo svolgimento del nostro lavoro quando siamo sul campo. Un giornalista straniero con una fotocamera al collo non è quasi mai ben visto dalla popolazione locale, succede spesso di essere fermati dalle persone in strada e che ci venga chiesto cosa stiamo facendo o di essere accusati di “fotografare solo quello che vogliamo”.
Un’ostilità non facile da superare.
Più che altro da mettere in conto. Il fotogiornalista può avere e certamente ha una sua propria visione di un determinato evento che andrò a fotografare, ma capita che per portare a casa il lavoro queste non possano essere espresse apertamente.
Cosa consiglia ai giovani che vogliono iniziare il mestiere?
Ho due consigli. Il primo è quello di affiancarsi a chi ha più esperienza, seguirlo e ascoltarlo. Poi ci sono molti corsi ed è bene seguirli nel tempo, anche se l’esperienza sul campo rimane la miglior scuola. Il secondo consiglio è quello di avere ben chiaro il perché si fa questo lavoro e avere una grande motivazione, altrimenti il gioco non vale la candela.
Qual è nel suo caso la motivazione che la spinge a continuare questo mestiere?
Io sono innamorato della storia. Mi piace esserci nei luoghi, nel momento in cui accadono gli avvenimenti. E raccontare le storie, per essere nella storia. Mi emoziona l’idea che un giorno un mio nipote possa conoscere un avvenimento storico attraverso i miei scatti.
Portfolio: http://www.lucasola.com/