Iran, il ritorno dello «squalo» (di Alberto Negri)


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(Alberto Negri) – Può sembrare paradossale ma l’Iran, il Paese dei giovani, oltre il 60% sotto i 35 anni, espressione di una società civile vibrante e istruita, cambia anche con un ottantenne. Nella foto della famiglia rivoluzionaria islamica, Hashemi Rafsanjani, dopo queste elezioni assai favorevoli al governo del presidente Hassan Rohani, è tornato in primo piano: è lui, che chiamano “lo squalo”, il vincitore alla corsa dei turbanti, l’Assemblea degli Esperti, dove sono stati fatti fuori quasi gli ayatollah più radicali e i moderati hanno conquistato la maggioranza dei seggi. La sua immagine postata su twitter in cui osserva Teheran dall’alto con uno sguardo dominatore, è emblematica: sembra voler dire “il padrino è tornato”.

In Parlamento il risultato, ancora provvisorio, dice che il blocco dei fondamentalisti-conservatori con 115 seggi resta il primo partito ma riformisti e moderati hanno conquistato 92 seggi: sommati ai 44 degli indipendenti potrebbero dare loro la maggioranza in attesa dei ballottaggi previsti per aprile. Un dato è particolarmente interessante: sono entrate in parlamento 15 donne, un record per la Repubblica islamica.

Questa volta gli investitori internazionali possono essere soddisfatti: Rafsanjani è l’uomo che già più di vent’anni fa quando era presidente (due mandati dall’89 al ’97) puntava all’apertura e non all’isolamento, a un accordo con gli Stati Uniti – ai visitatori mostrava con un certo orgoglio una Bibbia regalatagli dal presidente Ronald Reagan – ad attirare i capitali esteri, alla liberalizzazione dell’economia, ai nuovi contratti del gas e del petrolio: i suoi fedelissimi, come l’attuale vice-presidente Eshqaq Jahangiri, sono ben presenti anche nel governo di Rohani.

Se Alì Khamenei, Guida Suprema è il guardiano dell’ortodossia, Rafsanjani è quello degli affari. È lui il protagonista di ogni stagione della storia palese e occulta della Repubblica islamica. Se fossimo entrati nella stanza dove stava morendo l’Imam Khomeini nel giugno 1989, avremmo incontrato cinque personaggi: il figlio dell’Imam, Ahmad, Alì Khamenei, l’attuale Guida Suprema, Hashemi Rafsanjani, Mehdi Karrubi e Hussein Mousavi, i due leader dell’Onda Verde del 2009, ancora agli arresti domiciliari.

Khamenei e Rafsanjani decisero le sorti dell’Iran dopo la morte del fondatore della Repubblica islamica: uno fu eletto Guida Suprema, l’altro andò alla presidenza per otto anni consecutivi. È questa diarchia, con le sue convergenze e i suoi contrasti, che ha indirizzato le sorti dell’Iran e ora, ridimensionando l’ala radicale, vuol dire la sua sulla successione allo stesso Khamenei e il futuro della Repubblica islamica.

È una foto di famiglia perché gli ayatollah sono quasi tutti imparentati tra di loro. Haddad Adel, capo dei conservatori, eliminato a Teheran nella cosa al Majilis, il Parlamento, è il suocero di Khamenei mentre il super-duro Ahamad Jannati, capo del consiglio dei Guardiani, che ha falcidiato migliaia di candidati moderati, è il padre di Alì Jannati, l’attuale ministro della cultura nel governo di Hassan Rohani. Uno taglia, l’altro cuce.

Chi vuole le riforme e chi si oppone viene spesso dalla stessa famiglia. Sadeq Larijani, capo della magistratura, è un duro senza cedimenti, il fratello Alì, portavoce del Majilis, rieletto a Qom, il Vaticano dello sciismo, ha appoggiato l’accordo sul nucleare e l’apertura all’estero. Gli elettori, in massa alle urne per scegliere tra «il minore dei mali», come dice il politologo Sadeq Zibaqalam, non decidono davvero chi sono i loro rappresentanti, sono piuttosto gli arbitri di una lotta feroce all’interno dell’élite rivoluzionaria.

Ma questa oligarchia travestita da democrazia è molto attenta ai segnali che vengono dalla società, soprattutto dopo la rivolta del 2009 e le primavere arabe del 2011. «Le aspettative della gente dopo la fine delle sanzioni sono alte per questo dovremmo essere ancora più decisi nelle riforme dell’economia – dice Hussein Marashi – il problema sono i conservatori che occupano ancora molte posizioni di potere nel sistema». E qui facciamo la conoscenza con un altro personaggio del clan Rafsanjani: Marashi è un riformista, arrestato nel 2010 per la sua opposizione da Ahmadinejad, ma soprattutto è il fratello della moglie di Hashemi, che piazza regolarmente suoi uomini in tutti i governi. Hussein non è l’unico della famiglia ad avere assaggiato la prigione di Evin: ci sono finiti anche i figli di Rafsanjani, Mehdi, per mazzette versate dalla Total, e Faezeh, per avere insultato la Repubblica islamica.

Le parole di Marashi colgono il nodo della questione. I conservatori hanno in mano il Consiglio dei Guardiani, la magistratura, i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione, e soprattutto controllano attraverso le Bonyad, le Fondazioni, i due terzi dell’economia. È qui, nel cuore del sistema, che il cambiamento è più temuto da alcuni ma che rappresenta per altri una grande opportunità.

Mentre Rafsanjani votava al seggio di Jamaran, il museo ricavato nella casa di Khomeini che lui stesso aveva scelto come residenza per l’Imam, fuori un gruppo di supporter invocava la liberazione dei leader dell’Onda Verde, una delle promesse del presidente Rohani. Queste elezioni sono forse il primo passo per ricostruire quella foto di famiglia rivoluzionaria dove per comparire in primo piano davanti all’obiettivo della storia sgomitano da decenni conservatori, riformisti, radicali, ayatollah e Pasdaran. L’istantanea, come a ogni elezione, la scatta alle urne il popolo iraniano, forse con qualche speranza in più di vedere, la prossima volta, dei volti davvero nuovi.

 

Fonte: Il Sole 24 Ore

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