Iran, l’accordo che (ancora) non c’è


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(Alberto Negri – Il Sole24ore) – Il secco tre a zero tra Iran e Usa nel volley – oggi ci sarà la rivincita nel secondo turno di World League – non ha fatto gioire tutti gli iraniani. La vicepresidente Molaverdi, qualche mese fa in visita da Papa Francesco, era furiosa perché ancora una volta i duri del regime, apostrofati come dei “cavernicoli”, hanno tenuto fuori le donne dagli spalti. Ma non sono neppure passati inosservati i calorosi applausi all’inno e alla bandiera degli Stati Uniti. Un espisodio rilevante a Teheran, dove campeggia sempre un gigantesco murales con la scritta “Marg bar Amerikia”, Morte all’America.

La scadenza del negoziato sul nucleare si avvicina e gli iraniani sentono che si profila una svolta con l’Occidente. L’accordo basato sullo scambio fra rinuncia iraniana all’arma atomica e abolizione delle sanzioni forse si farà ma i dettagli – e il diavolo si annida nei dettagli – dovranno essere definiti entro il 30 giugno. Non è detto che la deadline sia rispettata.

Il nodo è quello delle sanzioni. L’Iran vorrebbe una cancellazione immediata, gli Usa e le altre potenze collegata alle verifiche internazionali. Teheran è sottoposta a sanzioni ma l’embargo è più occidentale che internazionale ed è aggirato da molti Paesi: la Turchia non rinuncia al gas iraniano, nonostante i due Paesi siano su fronti opposti in Siria. La Cina fa quello che vuole, importando oro nero ed esportando verso l’Iran il 40% degli armamenti dei Pasdaran. L’Occidente ha lasciato che il mercato iraniano scivolasse nelle mani di altri.

Il Medio Oriente crea più problemi di quanto sia in grado di risolverne. Ma questa trattativa non sarebbe nemmeno iniziata se occidentali, russi e cinesi non fossero convinti che l’Iran degli ayatollah è abbastanza razionale da non volersi dotare di testate atomiche, ben sapendo che in caso contrario verrebbe annichilita da un attacco americano o israeliano.

Quella con Teheran è una svolta che non tutti vogliono. Il punto è che l’intesa non è soltanto sul nucleare. Si tratta di un negoziato geopolitico per reintegrare l’Iran sulla scena internazionale e assegnare alla Persia un ruolo da protagonista in un vasto quadrante che va dal Mediterraneo all’Asia centrale, dalla Mesopotamia alla penisola Arabica, all’incrocio delle vie dell’energia.

A un’intesa è ostile lo stesso Congresso Usa, dove la maggioranza repubblicana tenta di soffocare un presidente debole che con questo accordo potrebbe lasciare un’eredità tangibile in politica estera. Non la vogliono neppure Israele e l’Arabia Saudita, che pur non avendo relazioni diplomatiche da un anno si incontrano, neppure tanto segretamente, per far saltare l’accordo. I nemici comuni di Riad e Tel Aviv sono le milizie filo-iraniane: gli Hezbollah in Libano, gli Houti in Yemen.

Intorno c’è un corteo di potenze che difende i suoi interessi. La Francia frena per non dispiacere i ricchi clienti del Golfo della sua industria bellica. I russi vorrebbero invece accelerare per vendere i missili S-300 a Teheran. Premono per un accordo le compagnie petrolifere come l’Eni e quelle americane, attirate dal fatto che l’Iran, assetato di investimenti, è pronto a rivedere i vecchi contratti capestro. L’Iran, sciolto dai vincoli delle sanzioni è un affare stimato oltre 100 miliardi di dollari.
Ma 35 anni di contrapposizione fra Stati Uniti e Repubblica Islamica, avvelenata da stereotipi negativi ed esasperata dalla propaganda, non si cancellano d’un colpo. America e Iran soltanto adesso sono tornati a parlarsi in un negoziato che costituisce un processo per costruire una fiducia reciproca che non c’è mai stata.

A cominciare dal giorno fatale in cui Washington e Teheran finirono su fronti opposti, anche se le cose avrebbero potuto andare in maniera completamente diversa. «Dategli un calcione e mandateli a casa», fu così che reagì l’Imam Khomeini, racconta Ibrahim Yazdi, allora ministro degli Esteri, quando seppe che un gruppo di studenti aveva occupato l’ambasciata Usa. Tutto poteva finire lì ma l’ayatollah che aveva innescato la rivoluzione contro lo Shah, vide in tv una folla enorme e si accorse che avrebbe potuto sfruttare questa mobilitazione per rafforzare il suo potere. Era iniziato, il 4 novembre del 1979, il sequestro degli ostaggi americani, che provocò una rottura insanabile.
Il conflitto si trasformò in un confronto a tutto campo: Khomeini, come lo Shah, aveva l’ambizione di fare dell’Iran un leader della regione puntando però sull’Islam politico e l’appoggio delle masse musulmane. Niente di più distante alla visione dell’America e di Israele. Poi ci fu nell’80 la guerra Iran-Iraq, l’aiuto americano e delle monarchie del Golfo a Saddam Hussein ma anche il segreto sostegno Usa a Teheran, in una strategia di “doppio contenimento” che non voleva vedere nessuno dei due Paesi uscire vincitore dal conflitto.

La strategia del contenimento non è molto cambiata: oggi gli Stati Uniti devono calmare Israele e accontentare gli alleati sunniti, ma hanno bisogno dell’Iran sciita per combattere il jihadismo e stabilizzare la Mesopotamia. L’Iran può diventare un alleato rispettabile? La collaborazione non sarà facile: un rapporto del dipartimento di Stato accusa l’Iran di attività collegate al terrorismo. Ma come dice Alì Shamkani, capo del consiglio di sicurezza nazionale, Usa e Iran «possono comportarsi in modo tale da non spendere la propria energia l’uno contro l’altro» e provare a disinnescare i conflitti di un Levante che sta tracimando profughi, instabilità e paure.

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