Israele-Gaza: una storia che si ripete


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(Benjamin Barthe. Le Monde) – Le hanno chiamate in tanti modi diversi: “Pioggia d’estate” nel 2006, “Inverno caldo” nel 2008, “Piombo fuso” nel 2009, “Colonna di nuvola” (anche conosciuta come “Pilastro di difesa”) nel 2012, “Margine di protezione” nel 2014. La storia delle relazioni tra Israele e Gaza può essere rappresentato da un vortice senza fine: dal 2005, anno dell’evacuazione dei coloni ebrei dal piccolo territorio costiero, la successione di operazioni militari non si è mai arrestata, tanto che appena termina un ciclo di violenze, un nuovo episodio pare essere già in preparazione.

La domanda del pubblico è sempre la stessa: di chi è la colpa? Le due parti difendono, ciascuna, il proprio diritto, la propria storia, il proprio copione sulle sue origini. La confusione, però, ha origine dalla reazione delle cancellerie occidentali: quando essere non sono palesemente schierate a sostegno dell’operazione militare israeliana, essere si limitano ad una scrupolosa equidistanza.

Questo atteggiamento ha dato spazio e lasciato che si imponesse l’idea che Israele e Palestina siano prigionieri di una sorta di legge del taglione moderna. Un istinto arcaico che inciterebbe le due parti, ad intervalli regolai, ad estirparsi a vicenda. Un’interpretazione che solleva la comunità internazionale da ogni responsabilità. Ma è un’altra la storia da raccontare.

L’occupazione della striscia di Gaza, contrariamente a quanto afferma Israele, non è terminata con la partenza dell’ultimo dei suoi soldati, l’11 settembre 2005. Come ricorda la ONG, lo Stato ebraico continua a controllare interi ambiti della vita dei palestinesi di Gaza: il registro di Stato civile, le acque territoriali, lo spazio aereo e l’unico terminal commerciale.

L’armata israeliana proibisce alla quasi totalità degli abitanti di recarsi in Cisgiordania, in violazione degli accordi di Oslo, che fanno dei due territori palestinesi un sola e unica entità giuridica. Gli abitanti dell’enclave non hanno più il diritto di penetrare nella zona cuscinetto, fascia di 500m e 1km di larghezza lungo la frontiera con Israele, dove possiedono spesso delle terre agricole. Coloro che rischiano l’attraversamento, vengono sistematicamente sparati. L’antropologo Jeff Halper, utilizza una metafora per riassumere l’effetto paradossale del disimpegno del 2005: “anche in una prigione, i detenuti controllano lo spazio essenziale. Non sono liberi più di così”.

Di questo stato di fatto, la maggior parte degli esperti in diritto internazionale hanno concluso che la striscia di Gaza è sempre sotto occupazione. E’ la posizione ufficiale delle Nazioni Unite. Un tale statuto richiede che l’occupante assicuri il benessere della popolazione occupata. Ma Israele si è costantemente sottratto a questi obblighi.

Grazie al rinforzo dell’Egitto del maresciallo Abdel Fattah Al-Sissi, ferocemente ostile a Hamas, e all’apatia della comunità internazionale, il blocco di Gaza è andato peggiorando. Secondo l’ufficio di statistica palestinese, il tasso di disoccupazione per i giovani dai 15 ai 29 anni ha raggiunto il 58% durante il primo semestre di quest’anno. 70% della popolazione dipende dagli aiuti umanitari.

Lo scoppio della violenza nel 2006, 2008, 2012 e 2014 è sempre stato legato, direttamente o indirettamente, alla reclusione degli abitanti di Gaza. Uno stato che non vince su Hamas alle elezioni del 2006, ma con la prima guerra del Golfo nel 1991. In questa data, prima dell’inizio degli attentati suicidi, i palestinesi di Gaza hanno perso il loro diritto a circolare liberamente.

Tutte le tregue negoziate in passato hanno comportato delle clausole di riduzione dei blocchi, come la riapertura del terminale di Rafah, con l’Egitto, o l’allargamento della zona di pesca. E tutte sono state ignorate, parzialmente o interamente, da Israele e il suo alleato egiziano. Quella in corso non farà eccezione.

Hamas ha la sua parte di responsabilità. Anche loro hanno violato gli accordi di cessate il fuoco, importando, attraverso il tunnel di Rafah, un arsenale intero di missili iraniani. Invece che costruire dei bunker sotterranei, ad uso esclusivo dei responsabili, gli islamisti avrebbero fatto meglio a costruire dei rifugi anti-bombardamenti, aperti ai loro sottoposti. Dissanguato dal blocco, Hamas ha tentato, ad intervalli regolari, di far risplendere il suo blasone di movimento di resistenza, sfidando Israele.

L’unica maniera di rompere questo circolo vizioso – e soprattutto marginalizzare Hamas – consiste nel rilanciare il processo di pace. Non un processo di estorsione diretto dalla legge del più forte, ciò a cui è assomigliata la maggior parte sedute di negoziato degli ultimi anni. Ma per dialogare in una situazione di uguaglianza, con il diritto internazionale come punto di riferimento.

A margine di una conferenza stampa consacrata a Gaza, il primo ministro israeliano, Benyamin Nétanyahu, ha dichiarato che egli era assolutamente contrario alla creazione di uno stato palestinese sovrano. Un eccesso di franchezza raro, segnalato dal sito d’informazione Times of Israel, ma passato in sordina nei media occidentali. In assenza di un tale orizzonte, l’armata israeliana può già riflettere sul nome in codice della prossima operazione contro Gaza.

 

Traduzione per Spondasud di Carla Melis

 

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