Khalid Sheikh Mohammed, noto anche con l’acronimo KSM, è una delle figure più rilevanti e controverse nella storia del terrorismo moderno. Considerato la mente dietro gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, Mohammed ha giocato un ruolo chiave all’interno di al-Qaeda, il gruppo terroristico guidato da Osama bin Laden. Attualmente detenuto presso il centro di Guantánamo Bay, il suo caso ha suscitato un acceso dibattito su giustizia, diritti umani e sicurezza globale.
Nato il 14 aprile 1965 (secondo altre fonti il 1 marzo 1964) nella provincia pakistana del Balochistan o, come suggerito da alcune fonti, in Kuwait, Khalid Sheikh Mohammed è cresciuto in una famiglia di origine pakistana. Dopo aver completato la scuola superiore in Kuwait, si trasferì negli Stati Uniti per studiare ingegneria meccanica presso la North Carolina Agricultural and Technical State University, dove si laureò nel 1986. Durante il periodo accademico, venne influenzato dall’ideologia islamista radicale, che lo spinse a unirsi alla resistenza contro l’invasione sovietica in Afghanistan negli anni Ottanta.
Dopo l’esperienza afghana, Mohammed avviò una collaborazione con diversi gruppi jihadisti e negli anni Novanta aderì ad al-Qaeda. All’interno dell’organizzazione assunse un ruolo di rilievo, pianificando e coordinando operazioni terroristiche su larga scala. Tra queste, l’Operazione Bojinka, un piano sventato nel 1995 che prevedeva di far esplodere 12 aerei passeggeri diretti negli Stati Uniti. Tuttavia, fu con gli attacchi dell’11 settembre 2001 che Mohammed consolidò la sua reputazione come uno dei principali strateghi del terrorismo globale, ideando e coordinando un attacco che causò quasi 3.000 vittime.
La sua cattura, avvenuta il 1° marzo 2003 a Rawalpindi, in Pakistan, fu il risultato di un’operazione congiunta tra le forze di sicurezza pakistane e la CIA. Successivamente, venne trasferito in siti segreti della CIA, dove fu sottoposto a interrogatori coercitivi, inclusi episodi di waterboarding (183 volte in un mese, secondo rapporti ufficiali). Per gli Stati Uniti la cattura di Khalid Sheikh Mohammad rappresentava un serio colpo ai terroristi “afghani” che si erano prefissi l’obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di americani, sia in patria che all’estero.
Questo network, sotto il comando di Ramzi Yusif (nipote di Khalid Sheikh Mohammad), era stato responsabile del tentativo di far saltare il World Trade Center nel 1993. Nel 1995, lo stesso duo complottò per far esplodere una dozzina di aerei americani in volo dall’Asia sudorientale verso gli Stati Uniti e pianificò un attacco suicida contro la sede della CIA a Langley, Virginia.
Tuttavia, mentre Ramzi Yusif e altri cospiratori furono arrestati, Khalid Sheikh Mohammad riuscì a fuggire e dal 1996 figurava nella lista dei ricercati più pericolosi dell’FBI. Anziché abbandonare l’attività terroristica, studiò la lezione dei fallimenti passati e, nel settembre 2001, diresse e comandò, per conto di Al Qaida, l’attacco terroristico che combinava due operazioni in un unico assalto devastante, il più clamoroso nella storia degli Stati Uniti.
Anche dopo l’11 settembre, continuò a pianificare una campagna terroristica globale, includendo operazioni ambiziose come l’attacco fallito del dicembre 2001 con sette camion-bomba contro le ambasciate americane, britanniche e israeliane a Singapore, e l’attentato suicida contro una sinagoga a Jerba, Tunisia, nell’aprile 2002. È probabile che fosse coinvolto anche nell’attentato di Bali dell’ottobre 2002, che causò oltre 200 vittime.
Nel 2006 fu trasferito a Guantánamo Bay, dove si trova tuttora in attesa di processo. Nel 2008 dichiarò la propria responsabilità per gli attacchi dell’11 settembre e altre operazioni terroristiche, ma il suo caso è stato continuamente rinviato a causa di controversie legali legate ai metodi di interrogatorio e alla gestione delle prove.
Il caso di Khalid Sheikh Mohammed rappresenta un esempio emblematico delle sfide che le democrazie affrontano nella lotta al terrorismo. Da un lato, la necessità di garantire sicurezza e giustizia; dall’altro, il rispetto dei diritti umani e delle norme legali internazionali. Le critiche ai metodi utilizzati per la sua detenzione e interrogatorio hanno sollevato interrogativi sulla legittimità delle prove e sulla trasparenza del sistema giudiziario militare di Guantánamo.
Nonostante la sua cattura abbia rappresentato un duro colpo per al-Qaeda, il terrorismo globale continua a evolversi, dimostrando la necessità di strategie globali e coordinate per affrontare minacce sempre più complesse. La vicenda di Khalid Sheikh Mohammed evidenzia anche le difficoltà di chiudere un capitolo simbolico e pratico della lotta al terrorismo, con un processo che, a distanza di oltre vent’anni, rimane incompiuto. Questo ritardo non è solo una questione legale, ma anche un elemento di frustrazione per le famiglie delle vittime dell’11 settembre, che attendono ancora una forma di giustizia definitiva.
Guantánamo Bay, istituita nel 2002 durante la “guerra al terrore”, continua a essere un luogo simbolico e controverso. Nonostante i tentativi delle amministrazioni Obama e Biden di chiuderla, rimane operativa e oggetto di critiche internazionali. Attualmente, la base ospita un numero ridotto di detenuti rispetto al passato, ma il suo futuro è ancora incerto, riflettendo le difficoltà di bilanciare sicurezza nazionale e rispetto dei diritti umani.
Khalid Sheikh Mohammed è considerato una delle menti più pericolose dietro il terrorismo moderno. La sua figura incarna la complessità del jihadismo transnazionale e le sfide delle democrazie occidentali nella lotta al terrorismo.
La sua eredità si inserisce in un contesto più ampio che supera il singolo individuo e pone al centro il rapporto tra stato di diritto e necessità di protezione globale. La sua storia è il simbolo di una lotta al terrorismo che richiede non solo interventi militari e di intelligence, ma anche una riflessione approfondita sulle strategie di prevenzione, sull’integrazione culturale e sul ruolo delle istituzioni internazionali.