(Bruno Scapini) – L’avvenuta caduta di Damasco in mano alle forze ribelli – vera congerie di miliziani che combattono “per procura” all’insegna di potenze straniere – segna irrimediabilmente la fine di quella Siria che abbiamo imparato a conoscere nei libri di Storia. Ancora una volta, le armi hanno prevalso per cambiare la geografia del Medio Oriente. Le forze anti-Assad sono riuscite in soli pochissimi giorni ad infliggere una sconfitta a Damasco dopo un’ultra decennale resistenza del suo regime.
10 giorni contro 10 anni! Sembrerebbe, alla luce di questa forse apparentemente ingenua considerazione, che l’Esercito regolare siriano si sia quasi spontaneamente concesso alla resa rinunciando ad ogni velleità di riconquista. Come spiegare tale, e per molti versi, anomala evoluzione del corso bellico nelle ultime ore?
Venendo a mancare lo storico sostegno militare della Russia, impegnata per ben altre e comprensibili ragioni sul fronte ucraino, ove la situazione potrebbe precipitare nella spirale di una “escalation” portante sull’orlo di una guerra nucleare, Assad ha dovuto cedere senza alternativa alcuna. Né ormai sarebbe bastato ad evitare il disastro nazionale accogliere la proposta di Erdogan, inizialmente avanzata, di creare un Governo in compartecipazione con le altre forze dell’opposizione. Una proposta alla quale Ankara non avrebbe ora di certo più acconsentito alla luce dei vantaggi ad oggi conseguiti sul terreno appoggiando le formazioni miliziane guidate da Hayat Tahrir al-Sham. D’altra parte, neanche l’amico iraniano sarebbe potuto venire in soccorso di Assad. Un diretto intervento in Siria deve essere stato preliminarmente escluso, trovandosi Teheran oggi in un aperto scontro dialettico con Israele, e a seguito anche dei rovinosi bombardamenti eseguiti su siti iraniani dalle forze della Stella di David. Ecco, dunque, la prospettiva più funzionale: cedere la Siria alle forze ribelli rimettendo, tuttavia, la soluzione sul suo futuro alle decisioni che verranno assunte da Turchia, Russia e Iran in sede di una probabile trattativa tripartita alla luce e in conformità – almeno lo si spera – degli orientamenti risolutivi dettati dal “Processo di Astana” sulla Siria.
Una certezza risulterebbe, comunque, già da ora in previsione: della Siria si è fatta piazza pulita. Ancora una volta la guerra è servita da strumento di ricambio giuridico per trasformare una situazione critica di fatto in situazione di diritto. E sul piano storico questo significa la scomparsa di un Paese nato dalla dissoluzione dell’Impero Ottomano (in esito alla Prima guerra mondiale) e un Medio Oriente ancora alle prese con nuove configurazioni geografiche alla ricerca di stabili assetti territoriali. Quegli assetti che le ex potenze coloniali dell’area (Gran Bretagna e Francia) non sono mai riuscite a trovare in ossequio ai propri prevalenti interessi strategici; anzi li avrebbero peggiorati con le gravi conseguenze che ancora oggi ci troviamo ad affrontare e che la irrisolta questione palestinese iconicamente rappresenta.
La caduta di Damasco costituisce così il prezzo che Russia e Iran devono pagare onde evitare un impegno militare nell’area gravido di pericolose implicazioni per entrambi i Paesi. Se, infatti, Mosca, da un lato, avvertendo una certa difficoltà a tener testa al processo di destabilizzazione avviato ai suoi confini dagli Stati Uniti, nell’ottica di infliggerle una sconfitta strategica, si trova oggi costretta ad arbitrare tra più scelte optando, tuttavia, per quella meno dolorosa in termini di rinunce – e sarà qui da vedere quale decisione Mosca prenderà a fronte dell’”invito” rivoltole dalle forze ribelli di lasciare la base navale di Tartus -, Teheran non godrebbe di certo al momento di posizioni più favorevoli. Il recente scontro con Israele, infatti, nel corso della guerra a Gaza, sebbene qualificatosi come un mero scambio di rappresaglie, deve aver pregiudicato in qualche modo le capacità militari del Paese a reagire efficacemente a Gerusalemme; il che avrebbe convinto Teheran ad assumere sul nodo siriano un atteggiamento più accorto e prudenziale concretizzatosi nel riconoscere priorità ad un dialogo tripartito dal quale spera di poter ottenere un qualche minimo beneficio.
È da osservare, tuttavia, in tale contesto, che la partita negoziale che ora si sta prospettando in vista di dare nuova configurazione alla Siria, per essere validamente riconosciuta nei suoi esiti finali da tutte le Parti in causa, dovrà essere necessariamente ispirata ad un gioco che “non sia a somma zero”. Un gioco, invero, in cui guadagni e perdite dovranno trovare una equilibrata compensazione per tutti i protagonisti giocatori, pena altrimenti la sopravvivenza di rancori e di risentimenti quali facili pretesti per una recrudescenza delle ostilità in futuro.
Una certezza emerge comunque e chiaramente dagli ultimi sviluppi della crisi siriana: i veri vincitori di questa guerra sarebbero, da un lato, la Turchia che, sostenuta come braccio armato dagli Stati Uniti per eseguire le operazioni più sporche, si troverebbe ora ad estendere la propria influenza in Siria, soprattutto in vista di crearsi una fascia territoriale “cuscinetto” per difendersi dalle milizie curde affiliate al PKK, e, dall’altro, Israele il quale, attraverso la demolizione del regime di Assad, si assicurerebbe non solo l’indebolimento di Hezbollah, i cui rifornimenti di armi dall’Iran difficilmente potranno ormai seguire i vecchi itinerari siriani, ma anche l’opportunità di pro-gettare il proprio controllo oltre le Alture del Golan (già appartenute alla Siria, ma occupate da Gerusalemme fin dalla guerra del 1967 e successivamente annesse) nella prospettiva di rendere realistico quel sogno biblico di un “Grande Israele” (Eretz Yisrael) quale progetto oggi al centro del revisionismo sionista perseguito dal Governo di Netanyahu e al quale difficilmente sfuggirà una consistente parte settentrionale della Striscia di Gaza attualmente occupata dall’IDF.
La caduta di Damasco in ogni caso, e comunque la si voglia interpretare, non è un buon segnale. Oltre a gettare lunghe ombre sui futuri destini della Siria e del suo popolo, é sintomo di una forza ancora significativa dei poteri globalisti, identificabili nel “deep state” americano e nelle lobby ebraiche più oltranziste, il cui fine ultimo é in effetti quello di creare una vera e propria “Cintura di Fuoco” in funzione anti-Russia. Un progetto, questo, da conseguirsi verosimilmente non solo sui confini occidentali della Federazione, ma anche lungo quelli del Caucaso meridionale fino al Sud-Est asiatico alimentando le mire espansionistiche del Panturan (leggi pure Turchia) favorite nelle aree ex sovietiche di matrice turcomanna dalla presenza delle Repubbliche centro-asiatiche. Che la Siria serva da monito, dunque! La caduta di Damasco è il grido di allarme per un mondo in rapida evoluzione, di cui però ancora non è dato intravedere la direzione che prevarrà.