(Bruno Scapini) – Non ci sorprende la scomunica comminata a Monsignor Carlo Maria Viganò dal Dicastero della Dottrina della Fede. Si poteva ben immaginare un tale esito nello scontro che ha visto ormai da anni l’Arcivescovo confrontarsi con Papa Francesco di cui non ha mai condiviso la visione di una Chiesa cattolica impostata nei suoi fondamentali in coerenza con la interpretazione più eterodossa del Concilio Ecumenico Vaticano II. Ed è qui, in effetti, l’essenza della contestazione del prelato.
Viganò, di cui il Dicastero della Dottrina della Fede ha dichiarato la colpevolezza per il delitto di scisma, rimprovera a Bergoglio il vizio del consenso. Vizio che si sarebbe sostanziato nel farsi eleggere Vicario di Cristo, nella consapevolezza della propria intenzionalità a voler nuocere alla Chiesa agendo per conto di un “nemico” della stessa. Un elemento, quest’ultimo, che avrebbe inficiato la stessa investitura pontificia di Bergoglio – afferma Viganò – palesemente contraria alla originaria Chiesa di Cristo. Su tali premesse, il prelato, nella sua requisitoria avverso Papa Francesco, arriva addirittura ad ipotizzare un “colpo di stato” ecclesiale che si sarebbe consumato con la sua ascesa al soglio pietrino, diventando la Chiesa cattolica uno strumento asservito al volere delle “elite” sovranazionali.
Ma domandiamoci, a questo punto, come sia possibile ricondurre la condotta di Bergoglio – di cui Viganò offre ampie e circostanziate prove del suo collegamento con le forze identificabili oggi nei poteri facenti capo al World Economic Forum – agli esiti dogmatici e sacramentali del Concilio Vaticano II. Il noto consesso ecumenico ebbe luogo tra il 1962 e il 1965, e anche ammettendo che la Chiesa, nella sua provvidenziale preveggenza, avesse allora percepito in anticipo l’emergere di nuove sensibilità, sembrerebbe arduo ricondurre la Chiesa bergogliana alle innovazioni direttamente discendenti dal Vaticano II.
Quel Concilio, in effetti, ebbe ad affrontare con cognizione di causa le nuove sensibilità che già negli anni ’60 stavano emergendo nel mondo. La loro percezione era stata fatta propria, e avvedutamente, da una Chiesa che, messa di fronte ai rapidi cambiamenti imposti dai tempi della modernità, ha ritenuto di dare delle risposte per non restare inadeguata rispetto alle nuove prospettive del progresso. Risposte che il Concilio ha effettivamente trovato proponendo una serie di innovazioni ideologiche, liturgiche e sacramentali in grado di assicurare nel tempo l’adattamento del ruolo e della funzione della Chiesa nel mondo che si stava evolvendo. L’esplosione demografica, le ingiustizie sociali tra classi e tra popoli, il rischio della guerra atomica, il progresso, sono stati argomenti di assoluto rilievo nel corso dei lavori conciliari i cui esiti, tuttavia, si sono condensati non tanto in proposizioni apodittiche, ed escatologicamente asseverate, e come tali inconfutabili, quanto in formulazioni di giudizi suscettibili di lasciare spazio al Vicario di Cristo per interpretarle assecondando la propria visione della Chiesa. Ecco allora come si spiegherebbe l’atteggiamento indubbiamente fedele alla ortodossia più schietta tenuto nel suo breve pontificato da Benedetto XVI, determinato a denunciare la “sporcizia della Chiesa” a riguardo di talune problematiche del clero (vedasi per esempio la condanna della pedofilia con cui Papa Ratzinger si è trovato confrontato), e l’”apertura”, per contro, voluta da Papa Francesco a quei “disvalori” che proprio Viganò ha inteso denunciare tacciando la sua Chiesa di essere “inclusiva, immigrazionista, eco-sostenibile e gay-friendy”. Ma un elemento ci dovrebbe indurre più di altri a riflettere su questa presunta “ereticità globalista” di Papa Francesco, come Viganò la definisce, e si tratterebbe dello stretto collegamento che Bergoglio ha inteso stabilire con i centri sovranazionali dell’economia e della finanza promuovendo quell’istituzione nota come “Council for Inclusive Capitalism with the Vatican”. Un ente, quest’ultimo, che, nato nel dicembre del 2020, ha creato un’intesa tra imprese multinazionali, fondi di investimento, soggetti di spiccato rilievo finanziario, come la famiglia Rothschild, e il Vaticano, allo scopo di “favorire lo sviluppo integrale della persona umana”. Forze, dunque, decisamente progressiste queste che vorrebbero realizzare proprio quel nuovo umanesimo cristiano che non si rifugia in visioni escatologiche sui destini finali dell’uomo e dell’universo, bensì nel ruolo di una cristianità più “mondana” quale proposta dalla “città terrena” e da un progresso offerto da una economia “addomesticata” dalla considerazione della persona umana. Il Consiglio, non c’è dubbio, raccoglie le forze finanziarie di punta del nostro Pianeta, riunendo imprese con 10,5 trilioni di dollari di valore in beni e 2.5 trilioni di capitalizzazione di mercato, con 200 milioni di occupati distribuiti in ben 165 Paesi. Una iniziativa strategica, dunque, è stata intrapresa dal Vaticano che, per il tramite del Consiglio, riesce a muoversi con disinvolta agilità perfino nei meandri più oscuri della finanza internazionale.
Ma la prova della relatività dei precetti introdotti dal Concilio Vaticano II e della loro “adattabilità” alle diverse visioni che i Vicari di Cristo potrebbero intrattenere, ci verrebbe chiaramente offerta dal modo di intendere il ruolo della “procreazione” – argomento cruciale sul quale si innestano oggi aspre diatribe con riferimento all’aborto, all’eutanasia e ad altre pratiche sociali – che, nella prospettiva sinodale, fatta propria da Papa Francesco, verrebbe intesa come “trasmissione responsabile della vita”. Una definizione ad amplissimo spettro di interpretazioni il cui punto nodale si insinuerebbe proprio nel modo di intendere la “responsabilità” che dovrebbe connotare qualunque decisione in merito alla procreazione della vita.
Non c’è dubbio, dunque, che Monsignor Viganò abbia toccato con la sua condotta scismatica il tema di quale debba essere il vero ruolo della Chiesa cattolica in un mondo, quale è quello attuale, in cui la polarizzazione ha sconfinato dal suo terreno originario, tipicamente politico, per investire addirittura quello trascendente del “divino”. Perché in fondo proprio di questo oggi si tratta. La visione globalista, e lo sappiamo, non ama le verità irrefutabili, né le certezze, né l’ordine come metodo, ma esalta, per prevalere, le divisioni, le frantumazioni, gli insegnamenti eterodossi e le deviazioni più aberranti, arrivando perfino a polarizzare la proiezione trascendentale dell’uomo. Solo in questo modo, infatti, i poteri globalisti potranno produrre quel disorientamento sociale, quell’ansia collettiva indispensabili ad imporre il loro Nuovo Ordine Mondiale. E in questo critico contesto, merito di Viganò – pagato con la scomunica – è stato indubbiamente quello di aver scoperchiato la pentola, mettendoci a confronto con la nuova realtà emergente; ma spetta però a noi ora guardare nel fondo di questa pentola per distinguere il profano dal sacro e trarre alla fine le nostre libere conclusioni.