(Paolo Paluzzi) – Con l’approssimarsi della fine dell’anno è inevitabile cercare di voler trarre un bilancio per quanto riguarda la Tunisia, a 5 anni appena compiuti dalla cosiddetta «rivoluzione dei gelsomini» e tentare di prevedere gli aspetti che domineranno la vita politica e sociale del Paese nordafricano per il 2016. Se da un lato infatti il 2015 si è chiuso con il riconoscimento del Premio Nobel per la pace al Quartetto nazionale per il dialogo tunisino, segnale di riconoscimento degli sforzi compiuti e, nel contempo, di incitamento a proseguire sulla strada intrapresa, quest’anno è stato anche l’anno del terrorismo: tre attentati principali (altri minori contro forze armate e dell’ordine si verificano con una certa regolarità dal 2013 specie verso i confini con l’Algeria) al museo Bardo di Tunisi, in un resort turistico sulla spiaggia di Sousse e contro un autobus che trasportava agenti della guardia presidenziale nel pieno centro della capitale, hanno profondamente scosso il paese mettendo in luce la fragilità dell’equilibrio della transizione democratica che ha vissuto il Paese.
Dal 2011 violenze, assassini politici, continue tensioni sociali non hanno comunque impedito di giungere alla promulgazione di una nuova Costituzione nel 2014, alla tenuta di elezioni libere e trasparenti per eleggere parlamento e presidente della Repubblica alla fine dello stesso anno e nel 2015 alla formazione del governo guidato da Habib Essid, ma molte sono ancora le ombre che oscurano il cammino tunisino e l’anno che verrà potrà stabilire se davvero il paese abbia intrapreso un cammino non a rischio.
Per capire meglio cosa potrebbe succedere, occorre analizzare ciò che accade a livello politico in tutto il paese, non solo nelle periferie disagiate, spesso fucina di giovani radicalizzati. Ciò che preoccupa, infatti non è soltanto la presenza di forze contro il sistema, pronte a far naufragare le speranze di democrazia, ma anche la presenza di spinte reazionarie all’interno dello stesso quadro politico che sta guidando la Tunisia. Inevitabile per il paese sarà dunque riuscire a risolvere la difficile equazione tra libertà politica e di espressione e lotta al terrorismo, cercando di evitare la deriva autoritaria.
La forte frammentazione sociale, regionale e generazionale che la rivoluzione non è riuscita a ricucire, ma che al contrario è aumentata negli ultimi anni, resta una priorità da affrontare urgentemente, per abbattere o perlomeno diminuire le diseguaglianze nell’accesso ai servizi, al lavoro, alla sicurezza e soprattutto ai diritti fondamentali. La classe dirigente continua a essere percepita dalla gran parte dei cittadini come troppo distante dalle loro esigenze e, spesso, appare rinchiusa all’interno della sua torre d’avorio, impegnata in diatribe interne più che a risolvere questioni cruciali per il futuro di tutti. La crisi che sta attraversando attualmente il partito di maggioranza relativa Nidaa Tounes al proposito ne è un chiaro esempio.
Il cammino verso la democrazia è certo un processo lungo, per cui sarebbe un errore giudicare ora o l’anno prossimo la riuscita o meno dell’esperimento tunisino, tuttavia si possono individuare i fattori di preoccupazione e gli elementi di giustificata speranza per il futuro. Il compito di agire spetterà per forza di cose ai leader tunisini che dovranno saper cogliere le occasioni per cercare di superare anche le difficoltà socio-economiche che spingono migliaia di giovani, in assenza di prospettive concrete per il futuro, verso la radicalizzazione e la partenza verso i territori di combattimento del Jihad.
In ogni caso, in questo momento, la Tunisia rappresenta l’unico esempio tangibile di transizione politica più o meno riuscita all’interno del complesso mondo arabo. Sarebbe utile dall’altra parte del Mediterraneo non dimenticarsi di quanto sia importante l’esito di tale processo sia per la Tunisia che per tutta la regione.
Paolo Paluzzi è un giornalista dell’Ansa