(BRUNO SCAPINI) – L’attacco di Hamas ad Israele, scattato la mattina di sabato 7 ottobre, ha colto il mondo di sorpresa. Almeno quella sua parte (l’Occidente) che credeva nella perduranza, per quanto fragile fosse, di una situazione di crisi apparentemente assopita, ma non risolta, nei rapporti tra Tel Aviv e il mondo palestinese.
Per portata di fuoco, con oltre 5000 razzi sparati dalla Striscia di Gaza, e una mobilitazione di un numero inusitato di miliziani e mezzi, l’attacco sembrerebbe non avere precedenti, per modalità di esecuzione, nella più recente storia del conflitto con Israele.
Netanyahu, il Primo Ministro israeliano, lo ha qualificato “una dichiarazione di guerra”, preannunciando già pesantissime ritorsioni, mentre le Cancellerie occidentali, sollecite nell’esprimere una profonda indignazione per l’atto definito terroristico, non hanno esitato ad esternare sentimenti di solidarietà allo Stato di Israele sostenendone il diritto all’esistenza e alla auto-difesa.
Non c’è dubbio, la violenza di quella che i palestinesi hanno chiamato “Operazione al-Aqsa”, dal nome della più grande Moschea di Gerusalemme, sconcerta per portata ed ampiezza, ed inquieta l’animo di coloro che credevano di poter sperare in una soluzione pacifica del conflitto. L’attacco ci ha improvvisamente riportato alla realtà; e lo ha fatto con tutto il drammatico disincanto che la distruzione di una illusione può implicare.
Ogni atto di violenza è biasimevole, lo sappiamo. E va censurato. E non solo per il suo contenuto di morte e sofferenza, ma anche, e soprattutto, affinché la sua condanna, se non espressa come mera sterile presa di parte, serva quale occasione di riflessione per indurci a prendere consapevolezza sulle vere sue cause.
E’ con questo spirito di spassionata imparzialità, e al di là della comprensibile emotività suscitata dai fatti, che la questione palestinese, quale fenomeno storico, andrebbe dunque affrontata. Così, collocando proprio quest’ultimo evento nel contesto delle dinamiche regionali – senza trascurare le cointeressenze delle grandi potenze – viene del tutto spontaneo, in una prima approssimazione, definire l’aggressione dei miliziani di Hamas come la “rivincita” palestinese sulla sconfitta subita con gli accordi di Abramo.
Questi, firmati nel 2020 su iniziativa dell’allora Amministrazione Trump, avevano impresso al processo di normalizzazione dei rapporti tra Tel Aviv e il mondo arabo una decisiva svolta positiva, sia prevedendo un mutuo riconoscimento tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, sia spianando la strada ad una successiva simile intesa tra Israele, EAU e Bahrein.
L’iniziativa americana, concepita nel quadro di un progetto politico inteso ad avvalorare un piano di pace israelo-palestinese ( Peace to prosperity plan) in realtà, al di là di un ammorbidimento delle relazioni tra Israele e una certa parte del mondo arabo, non è riuscita a conseguire quello che invece sarebbe dovuto essere il vero obiettivo di Washington: smuovere Tel Aviv dalla sua irriducibile intenzione di non ammettere concessioni all’Autorità Nazionale Palestinese. Una posizione, quella israeliana, di totale intransigenza, dunque, che ha inasprito nel corso del tempo, esasperandoli all’eccesso, i rapporti con i movimenti palestinesi alimentandone l’ostilità.
Non sarebbe saggio, tuttavia, sul piano dell’analisi storico-politica, limitarsi a considerare la questione palestinese sulla base di una fotografia della situazione attuale, quale cioè prodottasi in esito al recente attacco di Hamas. L’azione bellica ora intrapresa è, infatti, il portato di una lunga teoria di fallimenti dei Paesi occidentali che, più ostensivamente inclini a tutelare gli interessi di Israele, hanno finora considerato i corrispondenti diritti del popolo palestinese del tutto residuali, come se favorire un rapporto di buon vicinato di Israele con alcuni dei più ricchi Paesi del mondo arabo bastasse a stabilizzare la regione. Un convincimento del tutto ultroneo in realtà, dato che la distensione dei rapporti tra Tel Aviv e questi Paesi non potrà mai di per sé garantire la supina accettazione da parte dei palestinesi di una situazione decisamente a loro sfavorevole. Non dimentichiamo del resto in proposito le indescrivibili condizioni in cui i palestinesi della Cigiordania, e ancor peggio quelli della Striscia di Gaza, si trovano ancor oggi costretti a vivere. Vige un separatismo di fondo in queste terre che viene reso tangibile dalla divisione dei territori abitati dalle due comunità e dalla separazione degli stessi quartieri nelle città. Inoltre, il controllo sulle forniture di gas, petrolio e elettricità, e i condizionamenti imposti da Tel Aviv alla mobilità, al commercio e ad altre forme di attività economica – in presenza tra l’altro di una continua “erosione” di terre in favore dei coloni – limitando di fatto le libertà della popolazione la costringono a vivere in condizioni di estrema precarietà non molto dissimili da quelle di una vera prigione a cielo aperto.
Un dramma, questo palestinese, che trova originariamente la sua causa nel fallimento delle Nazioni Unite, e pertanto dei Paesi occidentali, nel pervenire fin dal 1948 ad una equa e proporzionale assegnazione dei territori alle due entità politiche che sarebbero dovute nascere con la risoluzione n.181 dell’ONU, in ossequio a quanto auspicato dalla dichiarazione Balfour del 1917: lo Stato della Palestina e quello di Israele. La previsione, purtroppo, di condizioni decisamente svantaggiose per i palestinesi ha determinato al tempo la dura reazione dell’intero mondo arabo che, sfociata in una teoria di guerre combattute contro Israele, ha minato le basi di una pacifica convivenza dando avvio ad una conflittualità crescente – alimentata dall’occupazione di ulteriori territori palestinesi e intervallata da alterne vicende diplomatiche – capace solo di far peggiorare la situazione scavando tra i due popoli un solco di odio e di incomprensione sempre più profondo.
Purtroppo, l’Occidente troppo spesso è dimentico delle vere cause dei conflitti. Così gli Stati Uniti, lungi dal convincere l’alleato israeliano a rivedere le proprie posizioni nei confronti dei palestinesi – inducendolo ad adottare un atteggiamento più morbido e flessibile – hanno invece creduto di poter compensare la conflittualità tra le due parti favorendo il dialogo di Tel Aviv con il mondo arabo più ricco ed avanato; e ciò a scapito naturalmente di una soluzione equa della questione palestinese che ancora oggi, con ostinata persistenza, si affaccia, come abbiamo visto, all’attualità politica in termini sempre più tragici e drammatici.
Se, dunque, l’attacco di Hamas può essere valutato come una significativa risposta alla sua marginalizzazione conseguente all’effetto distensivo avuto dal ruolo di Washington sulle relazioni di Israele con una parte del mondo arabo, non possiamo omettere altresì di valutare gli effetti che l’attacco di Hamas potrà verosimilmente avere sul più esteso quadro geopolitico della regione.
L’offensiva palestinese, infatti, a ben guardare si inserisce nella più ampia azione intrapresa da Teheran nella prospettiva di rompere l’asse anti-iraniano che gli accordi di Abramo avevano inteso realizzare. Non è per nulla del resto che Tel Aviv abbia cercato recentemente di rafforzare i rapporti di cooperazione militare con l’Azerbaijan; un’iniziativa volta non solo a sostenere il Paese nella guerra contro l’Armenia (fino alla definitiva scomparsa della Repubblica dell’Artsakh con l’ultima guerra lampo scatenata da Baku il 19 settembre scorso), ma anche, e soprattutto, a stabilire in Azerbaijan un punto strategico di controllo per tenere l’Iran sotto tiro, facendo leva, per una eventuale sua destabilizzazione, sulla presenza sul suo territorio di una cospicua minoranza di etnia azera di ispirazione anti-iraniana.
Se, pertanto, a Teheran si guarda con profondo giubilo all’aggressione di Hamas, più moderata risulta, per contro, la posizione espressa dalla Turchia, dalla Russia e dalla Cina. Sia a Mosca che ad Ankara e Pechino, infatti, non ci si è esposti più di tanto nel censurare l’attacco, limitandosi i rispettivi Governi a richiamare le parti in conflitto per ristabilire un approccio negoziale per la soluzione della questione. Un atteggiamento peraltro in linea sia con l’attuale interesse di Erdogan a mantenere un rapporto collaborativo con Tel Aviv, in ossequio al ruolo pro-attivo che la Turchia vorrebbe svolgere in tutta l’area medio-orientale, sia con la politica seguita dal Cremlino, tradizionalmente in favore della causa palestinese, ma più incline ora a non inasprire i rapporti con Tel Aviv a fronte della critica situazione determinatasi in Ucraina. Per la Cina, infine, prevarrebbe in questo momento l’interesse a salvaguardare le prerogative della “nuova via della seta” ( the belt and road iniziative) in vista della quale Pechino avrebbe già effettuato ingenti investimenti proprio in Israele.
Alla luce di tale complessa situazione, alla quale non si sottrae il recente avvicinamento all’Iran del colosso saudita, un elemento che indubbiamente rassicurerebbe Teheran sul suo interventismo anti-israeliano, un dato sembrerebbe ora più che probabile: l’attacco mosso da Hamas ad Israele, per quanto destinato ad essere schiacciato da una impareggiabile forza militare avversaria, non dovrebbe però mancare di incidere sulla tenuta delle attuali dinamiche regionali e, in particolare, su quella fragile architettura diplomatica così faticosamente raggiunta con gli accordi di Abramo. Vecchie criticità potrebbero verosimilmente slatentizzarsi ora nell’area, come anche nuove incertezze, soprattutto nel caso, assai probabile invero, di un inasprimento delle già critiche relazioni tra Israele e l’Iran; uno sviluppo destinato ad avverarsi qualora dovessero concretamente emergere le responsabilità di Teheran (al momento solo ipotizzate) nel disegno aggressivo di Hamas. D’altra parte non va dimenticato di osservare in questa prospettiva, come proprio l’Iran sia rimasto ancora l’ultimo Paese del Medio Oriente “disallineato” con Washington a non essere destabilizzato da una rivoluzione “colorata”. Il progetto c’è ed esiste in effetti nella leadership a stelle e strisce. Ma si attende, per portarlo a buon fine, un qualche utile accadimento, spontaneo o provocato poco importa, purché capace di aprire la strada a questo nuovo temibile sviluppo. Sarà l’attacco di Hamas?