
di Federica Cannas
In un tempo in cui il mondo sembra dividersi in blocchi sempre più rigidi e le crisi si moltiplicano senza soluzione di continuità, Luiz Inácio Lula da Silva il 9 maggio sarà a Mosca per partecipare alle celebrazioni della vittoria sovietica sul nazismo, una data carica di simboli per la Russia di oggi. Non sarà una presenza neutra. Incontrerà Vladimir Putin e, secondo fonti vicine al Planalto, ribadirà l’intenzione del Brasile di offrire una piattaforma di dialogo tra Mosca e Kiev. Una posizione coerente con il suo profilo da mediatore, ma anche un segnale forte a un mondo che sembra aver smarrito la via del negoziato.
Qualche giorno dopo, Lula sarà a Pechino per il vertice Cina-CELAC, l’incontro tra la potenza asiatica e il blocco latinoamericano-caraibico. Qui il Brasile non solo riaffermerà il proprio ruolo da ponte tra Sud globale e grandi potenze, ma punterà anche a rafforzare la cooperazione con la Cina nei settori strategici: energia pulita, infrastrutture, tecnologia. Non più semplice esportatore di materie prime, ma partner globale con voce propria.
In queste due tappe, Mosca e Pechino, si legge la volontà del Brasile di sfuggire a una logica binaria, superando la contrapposizione forzata. Lula si muove con l’intelligenza di chi conosce la storia, ma guarda oltre. Promuove un multilateralismo pragmatico, dove il dialogo prevale sull’allineamento cieco.
Non è un caso che questa strategia venga proprio dal Sud del mondo. Dal Brasile, da Lula, da un Paese che conosce il valore della diplomazia perché ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze delle chiusure. In un’epoca che ha urgente bisogno di nuove geometrie internazionali, la diplomazia brasiliana sembra dire che non esistono solo due strade. Se ne possono tracciare altre, se si ha il coraggio – e la visione – di percorrerle.