di Bruno Scapini – ex ambasciatore d’Italia in Armenia
L’attacco sferrato il 2 aprile scorso dall’Azerbaijan contro il Nagorno Karabagh, Repubblica auto-praclamatasi indipendente all’indomani della scomparsa dell’Unione Sovietica, merita certamente un’analisi più approfondita, aldilà del circoscritto contesto negoziale messo in piedi dall’ OSCE con l’obiettivo di pervenire ad una soluzione concordata e condivisa.
Infatti, non si tratta solamente di condannare la violazione del “cessate-il-fuoco” – la più grave in realtà degli ultimi vent’anni -, né di accertare le responsabilità per tale improvviso atto di guerra – sconcertante per dimensione assunta e per ampiezza delle incursioni azere portate questa volta in profondità nel territorio del Nagorno Karabagh -, né ancora di dirimere una controversia su di un territorio conteso. Ma si tratta anche – e forse più opportunamente – di ricontestualizzare l’inusitato attacco militare azero nel quadro delle dinamiche Est-Ovest per coglierne il senso ed il portato politico ad un più alto piano di osservazione. Il Caucaso del resto, quale regione di confrontazione tra Stati Uniti e Russia, non è nuovo ad iniziative di destabilizzazione dell’ordine politico sorto a seguito del riposizionamento di Mosca nell’era post-sovietica. E valga per tutti, a dimostrazione delle tensioni esistenti, l’esempio offerto dalla guerra russo-georgiana dell’agosto del 2008 a seguito della quale, si è consolidata – ricordiamolo – la dottrina “Putin” sugli spazi già appartenuti all’Unione Sovietica quali aree di “interessi privilegiati” della Federazione Russa.
Oggi, come allora, si rileva un atto di provocazione: l’infelice tentativo nel 2008 dell’allora Presidente della Georgia, Mikheil Saakashvili, di riprendersi – col sostegno della NATO e degli USA – i territori dell’ Ossezia del Sud e dell’Abcasia, ora, nel 2016, la tentata riconquista del Nagorno Karabagh, o di sua parte, messa in atto dal Presidente dell’Azerbaijan, Ihlam Alijev, col sostegno dichiarato di Erdogan e l’incoraggiamento più indiretto, ma sempre esplicito, di John Kerry.
Entrambi, possiamo dire, risultano tentativi mirati di destabilizzazione dell’ordine caucasico ai danni di Mosca; entrambi, atti portati ad esecuzione da regimi di dichiarata simpatia pro-occidentale al fine precipuo, e sottilmente inteso, di imbarazzare Mosca creando altra occasione per indebolirne la capacità di reazione su più fronti, a tutto vantaggio di Washington e della NATO.
Ecco spiegato, dunque, il coraggio avuto da Baku oggi di portare l’affondo militare ben oltre la linea di contatto per ricorrere a vere e proprie incursioni militari condotte su vasta scala, impiegando uomini e mezzi in numeri senza precedenti, e attivando senza scrupoli arsenali di guerra di ultime generazioni.
Che l’ attacco abbia comunque causato turbamento a Mosca è fuori di dubbio. Il Cremlino, nonostante l’ennesima provocazione della Turchia – che avrebbe appoggiato militarmente l’intervento azero – ha preferito ricondurre la pacificazione nel tradizionale alveo del processo negoziale già avviato dall’OSCE, rinunciando in tal modo, almeno per ora, ad un più diretto confronto con Ankara. Ma l’imbarazzo di Putin si è anche rivelato nei rapporti direttamente intrattenuti con Yerevan e Baku. Mosca è fornitore di armi per entrambi i Paesi. E tale circostanza non manca ora di suscitare animosità alquanto estese presso gli stessi armeni che lamentano oggi la spregiudicatezza di Mosca nel gestire con disinvoltura gli accordi di cooperazione strategica e, prima di tutti, il Trattato di Sicurezza Collettiva ( CSTO ), là ove si contempla l’impegno dei Paesi membri a non favorire alleanze e azioni pregiudizievoli per un altro Stato parte dello stesso Trattato.
Ma una certezza comunque emergerebbe tra gli esiti di questa “guerra lampo”: la ripresa del negoziato per trovare una soluzione definitiva al conflitto non potrà più basarsi sui termini e sui criteri fin qui adottati. Da un lato, infatti, il Gruppo di Minsk ha dimostrato di non essere pienamente in controllo della situazione, né di essere sufficientemente convincente a livello propositivo. Dall’altro, la popolazione del Nagorno Karabagh, avendo ancora una volta sperimentato l’efferatezza degli atti di violenza commessi da parte delle unità azere anche sui civili, sarà indotta a rifiutare irreversibilmente qualunque scenario risolutivo che non includa una piena e riconosciuta indipendenza. Dunque una ripresa del negoziato – se ripresa ci sarà – dovrà necessariamente partire dalle attuali condizioni del Nagorno Karabagh, ad esclusione di qualsiasi regressione di status, prevedendone peraltro la partecipazione – finora non ammessa – al tavolo delle trattative. Dovessero tali pregiudiziali, infatti, rimanere insoddisfatte, potrebbe rivelarsi un grave errore per Yerevan tornare al dialogo senza un minimo di garanzie per il futuro.
Il persistere dell’attuale situazione ingenererebbe il convincimento nella dirigenza azera di poter gestire il rischio di guerra a proprio piacere, sostenuta in questo da un esplicito appoggio dichiarato da Ankara, mentre la popolazione del Nagorno Karabagh resterebbe “sine die” preda di una pericolosa condizione esistenziale posta tra “pace e guerra” ; una situazione tra l’altro suscettibile di riesplodere in un ben più grave ed esteso atto di guerra qualora sulle ambizioni irrefrenabili di Baku di “recuperare” il territorio del Nagorno Karabagh si innestassero dinamiche destabilizzanti nel quadro di quella partita che vede confrontarsi nella regione euro-asiatica i noti maggiori “global player”.