Prove di reazione in America Latina


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(Alessia Lai) – Mentre dalle nostre parti l’opinione pubblica viene convinta dell’esistenza di un nemico islamista pronto a sbarcare in Europa armato di scimitarra, dall’altra parte dell’Atlantico si susseguono da mesi tentativi, più e meno palesi ma reali, di abbattere governi democratiamente eletti. Tutto nel silenzio della stampa nostrana e tutto nel medesimo Continente, in uno “scontro” nord sud che rende ben chiaro quanto la “dottrina Monroe” sia non certo una visione relegabile al passato ma parte viva e vitale dell’esistenza stessa degli Stati Uniti d’America.

Il “siamo tutti americani”, pronunciato recentemente da Barack Obama in occasione dell’apertura al dialogo con Cuba, sembra nascondere proprio quel pensiero, come un’impronta genetica che non si può ignorare: tutti americani, gli abitanti della Casa Bianca e quelli del suo cortile, una immensa “area di pertinenza” situata a sud del confine meridionale degli Usa.

Brasile, Argentina e Venezuela. I Paesi oggi più influenti del Sudamerica sono nel mirino di una destabilizzazione non casuale, per i tempi e per i modi. Un’economia emergente parte del Brics, un paese in crescita e affrancato dal laccio del debito, uno dei più grossi estrattori di petrolio al mondo. Tre Paesi con economie diverse ma con governi uniti dal filo comune del recupero della sovranità, attraversati, ognuno con sfumature differenti, dall’onda socialista e popolare nata con la rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez e che come un cerchio nell’acqua si è propagata a gran parte dell’America Latina influendo più o meno intensamente sui governi di gran parte dei Paesi che ne fanno parte. Per il “padrone di casa”, o per chi crede di poter ancora vantare questo diritto, Brasile, Argentina e Venezuela sono le nazioni più pericolose. Sono queste ad essere colpitie in questo periodo, contemporaneamente, con manovre de stabilizzatrici alimentate dall’esterno, grazie a leve finanziarie e a complici interni: le destre liberiste ben introdotte nelle ambasciate nordamericane.

Brasile. La presidenta del Brasile, Dilma Rousseff, a meno di sei mesi dalle elezioni che la hanno vista ancora una volta vittoriosa, sta affrontando in questo periodo un durissimo attacco mediatico che mira alla sua destituzione. Approfittando degli scandali di corruzione in Petrobras, vari politici e membri del Congresso hanno chiesto la testa della “presidenta” accusandola di non aver impedito le irregolarità commesse quando era funzionaria della brasiliana del petrolio, ai tempi della presidenza di Luiz Inacio Lula da Silva, nonostante lei abbia sempre negato di esserne stata a conoscenza. Vogliono l’“impeachment”, nonostante questo provvedimento non trovi nemmeno posto nelle leggi brasiliane.

La campagna di stampa, da parte dei giornali in mano alle opposizioni, è feroce e accusa Dilma di essere una corrotta ormai screditata. Giungere alla sua destituzione sarà impossibile, visto che per costringerla a rinunciare si dovrebbe passare per un Parlamento nel quale i suoi sostenitori hanno la maggioranza, ma il risultato di tutto questo è che il governo brasiliano è oggi più impegnato a parare gli attacchi mediatici degli oppositori che a far progredire il Paese. Non sono in pochi a pensare che, vista la maggioranza di cui Dilma dispone in Parlamento, in alcuni settori possa maturare l’idea di un colpo di Stato ai suoi danni.

Venezuela. Ipotesi non certo campata per aria visto quel che sta accadendo in Venezuela, dove pochi giorni fa è stato sventato un nuovo tentativo di golpe ai danni del governo bolivariano. Una strategia articolata e preparata da mesi, che si sarebbe dovuta compiere tra l’11 e il 12 febbraio con il coinvolgimento di diversi ufficiali dell’Aviazione – già arrestati – in occasione dell’uscita di un documento firmato dagli oppositori Maria Corina Machado, Leopoldo Lopez e Antonio Ledezma denominato “Accordo nazionale per la transizione”. I tre furono già coinvolti nel golpe del 2002 ai danni dell’allora presidente Chávez e Ledesma, oggi sindaco di Caracas, fu implicato nella sanginosa repressione delle rivolte del 1989, note come Caracazo. Cospiratori di lunga data e consolidata esperienza insomma. Il presidente Nicolas Maduro, all’indomani dello sventato colpo di Stato ha denunciato le manovre nelle quali era previsto il bombardamento di Palacio Miraflores, con l’intento di uccidere il capo dello Stato e il suo entourage, diversi ministeri e anche la sede di Telesur.

In questi piani ci sarebbe stata, come sempre accaduto in occasione dei colpi di mano messi a asegno in America Latina, l’assistenza degli Stati Uniti, i quali hanno prontamente negato qualunque coinvolgimento, accusando invece Maduro di volere solo distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni del Paese. Problemi certo reali ma indubbiamente anch’essi parte di un lungo tentativo di destabilizzazione intensificatosi dopo la morte di Hugo Chávez. Un tentativo iniziato con l’appoggio alle violenze messe in atto dalle opposizioni all’indomani dell’elezione di Maduro quale successore del defunto leader della rivoluzione bolivariana.

E poi alle mobilitazioni di strada, gestite dai gruppi studenteschi istruiti dal Canvas e finanziati dai think tank statunitensi come la Ned e la Freedom House, con le quali è stato portato il disordine nelle strade del paese, le “guarimbas” che hanno causato morti e feriti nel tentativo di destabilizzare il governo. L’accaparramento dei beni di prima necessità favorito dai gruppi economici vicini alle opposizioni, la speculazione finanziaria sul cambio bolivar/dollaro hanno poi aggravato una situazione già molto difficile causata dal calo vertiginoso del prezzo del petrolio, sulla cui estrazione il Venezuela basa la propria economia. E questo perché l’Opec, l’organizzazione che riunisce i paesi produttori di petrolio nella quale hanno di fatto potere decisionale i paesi arabi legati a doppio filo con Washington, ha deciso di lasciar crollare il prezzo dell’oro nero.

Una vera e propria manovra concentrica, attuata su più fronti, per cercare di mettere la parola fine all’esperienza dei governi bolivariani: per gli Usa, un’ insopportabile dimostrazione che essere indipendenti politicamente da loro è possibile, che è possibile rifiutare le regole del mondo liberista nel quale le risorse non sono del popolo ma di chi le sfrutta a proprio vantaggio, che sia possibile affrancare la gente da ignoranza, fame e malattia rendendola cosciente del proprio potere.

Distruggere il Venezuela equivarrebbe a distruggere il sogno di Chávez e il simbolo di una America Latina che si è affrancata dal ruolo di cortile di casa degli Usa e che persegue l’obiettivo dell’integrazione in una visione multipolare del mondo. Sarebbe la “vittoria morale” con la quale Washington dimostrerebbe l’impossibilità di affrancarsi dalla tela di ragno mercatista, capitalista e predatoria con la quale pervade il globo. Un piano che non può certo perdere di vista l’Argentina, altro Paese “ribelle” che ha concretizzato la possibilità di affrancarsi dallo strozzinaggio del debito estero.

Argentina. E allora, mentre in Brasile si intensificano gli attacchi delle opposzioni contro Dilma Roussef e a Caracas si cerca di abbattere Maduro, il governo peronista di sinistra di Cristina Kirchner viene trascinato in uno scandalo che si aggiunge alle speculazioni sul peso e alle manovre nordamericane per mettere in ginocchio il Paese pretendendo il pagamento di un debito illegale ai “fondi avvoltoio” statunitensi. Con il “caso Nisman”, Cristina è stata apertamente accusata di aver fatto uccidere un giudice a lei ostile. Il procuratore Alberto Nisman, che l’aveva accusata di aver negoziato in segreto l’impunità degli iraniani accusati dell’attentato antiebraico del 1994 a Buenos Aires, è stato trovato cadavere nel suo appartamento il 18 gennaio scorso, e da allora le speculazioni della stampa d’opposizione hanno riguardato il presunto ruolo della presidenta nella vicenda.

La Kirchner ha invece rivolto i suoi sospetti sul servizio di intelligence argentino – la Side – la cui nomenclatura risale ai tempi della dittatura e che, al contrario delle forze armate, non è mai stata riformata. Per questa ragione ha annunciato una vasta riorganizzazione dei servizi segreti che comprende la sostituzione della stessa Side con un nuovo organismo. Inoltre, secondo la documentazione ritrovata in possesso di Nisman, non esisterebbero prove delle accuse che il procuratore aveva rivolto a Cristina prima di esasere ritrovato morto. Per questa ragione la presidenta ha adombrato l’ipotesi che si tratti di una manovra messa in atto per screditarla attraverso l’uso dell’apparato di intelligence argentino colluso con altri servizi segreti. Un’ipotesi che è stata esposta in modo molto chiaro in una lettera che il cancelliere argentino Héctor Timerman ha inviato ai responsabili delle relazioni estere di Washington e Tel Aviv.

Nel documento, il ministro ha espresso la sua preoccupazione ufficiale per il fatto che l’Argentina sembra stia diventando uno «scenario nel quale altri stati intervengono attuando dispute in funzione dei loro interessi geopolitici». Con toni duri, ha sollecitato i governi di Usa e Israele a far sì che il loro «personale diplomatico accreditato osservi le norme e le condotte stabilite dalla Convenzione di Vienna e dal diritto locale», aggiungendo che «il popolo argentino non deve tollerare, e tanto meno soffrire, il fatto che il suo paese sia teatro di operazioni politche, di intelligence, o peggio ancora, di fatti e azioni più gravi, per conflitti che sono completamente estranei alla sua storia». La causa di queste operazioni (delle quali è lecito immaginare possa far parte l’omicidio Nisman), sostiene la lettera inviata a John Kerry e Avigdor Lieberman, sarebbero le divergenze nate tra gli Usa e Israele per chiudere l’accordo sulla questione del nucleare iraniano tra i membri del 5+1 (Consiglio di Sicurezza più Germania).

Buenos Aires ha infatti chiesto più volte che la questione dell’attentato di 21 anni fa contro l’AMIA (l’associazione ebraica argentina con sede a Bueno Aires), che costò la vita a 85 persone, venga inclusa nei negoziati con l’Iran perché divenga una questione a carattere internazionale e non bilaterale. Difatti, ogni qual volta l’Argentina ha discusso di quei fatti con l’Iran, è stata accusata, dagli Usa in primis, di avvicinamento e collaborazione con la Repubblica Islamica.

Le indagini condotte non hanno mai portato alla luce le responsabilità di quell’attentato e per questa ragione Washington accusa l’Argentina di un atteggiamento morbido con Teheran.

«Non portino qui conflitti esterni, che non ci appartengono – aveva detto la presidenta Kirchner a fine gennaio dopo la denuncia e la morte di Nisman –. Per favore, non trascinateci nel dramma di altre remote regioni del mondo nelle quali si uccide, si tortura, si lanciano bombe e missili, nelle quali si minaccia con lo sterminio degli uni e degli altri. Questo non ha niente a che vedere con la nostra storia». Concetto ripreso da Timerman nella lettera del 18 febbraio nella quale ha ribadito che «l’Argentina non ha alcun interesse strategico né militare, né di intelligence e men che meno di spionaggio nell’area del Medio Oriente» e che si oppone «per principio politco e morale a qualunque atto che promuova la violenza o la violazione della sovranità tanto in forma aperta quanto in maniera coperta»”.

Non certo un messaggio cifrato, ma una vera e propria chiamata in causa di servizi stranieri in territorio argentino. Intanto, nello stesso giorno in cui Timerman ha sottoscritto la lettera inviata a Usa e Israele, le opposzioni sono scese in strada, a Buenos Aires, con l’intenzione di contestare il governo a un mese dalla morte di Nisman. Manifestazione indetta da un «piccolo gruppo di giudici, manipolati dai media dominanti», hanno commentato in un documento artisti, intellettuali e membri del potere giudiziario argentini.

Così hanno fatto i media dominanti, che dalle nostre parti hanno immediatamente ripreso la mobilitazione descrivendola come una protesta di massa contro il governo di Cristina Kirchner, già accusata senza appello di avere ordinato l’eliminazione di Nisman.

La stessa stampa, il Corriere della Sera, pochi giorni prima non ha perso l’occasione di attaccare ancora una volta il Venezuela mostrando il video dell’arresto del sindaco di Caracas implicato nel nuovo tentato golpe con un titolo che non potrebbe essere più lontano dalla realtà: “Ledesma arrestato e picchiato nel suo ufficio”. Basta visionare il documento per rendersi contro che l’arresto di Ledesma è avvenuto senza che gli sia stato torto un solo capello. Le menzogne, ripetute più e più volte, confezionate dalla stampa “autorevole”, diventano verità: l’humus ideale per accogliere e far crescere i semi distopici della ditattura “democratica” planetaria.

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