Saudade, memoria e rinascita in Portogallo


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Quando pensiamo al Portogallo, ci vengono in mente le sue città luminose, i poeti che ne hanno cantato l’anima, le onde dell’oceano che ne bagnano i confini o la malinconia del fado. Ma c’è anche un Portogallo più oscuro, quello degli anni di Salazar, quando il Paese era una prigione a cielo aperto, isolato dal mondo, ingessato in una retorica di ordine e silenzio.
Per più di quarant’anni, il Portogallo visse sotto l’Estado Novo, la dittatura imposta da António de Oliveira Salazar, l’economista diventato autocrate che governò con la freddezza di un contabile.

L’Estado Novo fu istituito ufficialmente nel 1933 e durò fino al 1974, per 41 anni. Salazar fu Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1932 fino al 1968, quando una malattia lo costrinse a lasciare l’incarico. Gli succedette Marcello Caetano fino al 1974. Il suo Portogallo era povero, immobile, fatto di obbedienza e paura. Un Paese fermo nel tempo, chiuso in una nostalgia costruita a tavolino, dove l’idea stessa di modernità era vista come un pericolo.

Salazar non era un dittatore da parate eclatanti o da violenze spettacolari. La sua repressione era più sottile, più metodica. Con il suo motto Deus, Pátria, Família (Dio, Patria, Famiglia), imponeva un’idea di società rigida e autoritaria, dove il popolo doveva essere disciplinato e grato. Il Portogallo era un paese di poveri abituati a non chiedere, di intellettuali costretti a tacere o a fuggire, di giovani spediti a combattere guerre coloniali che sembravano non finire mai.

Mentre l’Europa del dopoguerra si trasformava, il Portogallo restava ancorato al passato. I contadini lavoravano terre aride con strumenti che sembravano usciti dal Medioevo, mentre nelle città si viveva con stipendi miseri e una rassegnazione silenziosa. La polizia politica, la PIDE, vegliava su tutto e su tutti. Bastava un sospetto, una parola di troppo, e si finiva imprigionati, torturati, esiliati.

Le colonie – Angola, Mozambico, Guinea-Bissau – diventavano sempre più un’ossessione. Mentre il mondo intero si muoveva verso la decolonizzazione, il Portogallo si ostinava a mantenere un impero che non poteva più permettersi, sacrificando giovani vite in una guerra inutile.

Eppure, anche nei momenti più bui, il Portogallo non ha mai smesso di respirare. C’erano voci che si alzavano sopra il silenzio imposto. Il poeta Fernando Pessoa, con il suo labirinto di identità, aveva già seminato il dubbio nella mente dei lettori. José Saramago avrebbe poi dato parole alla memoria collettiva, raccontando l’anima di un popolo che aspettava il suo riscatto. I musicisti del fado, come Amália Rodrigues, trasformavano il dolore in arte, facendo del sentimento della saudade una forma di resistenza.

E poi, quando sembrava che nulla potesse cambiare, il 25 aprile 1974 arrivò come un fulmine in pieno giorno. La Rivoluzione dei Garofani spazzò via il regime con una rapidità inaspettata. Il popolo si riversò nelle strade, i soldati si unirono ai manifestanti, i fiori finirono nelle canne dei fucili.

Non ci furono spargimenti di sangue, perché il Portogallo non era mai stato un Paese violento. La sua resistenza non era fatta di guerre civili o di battaglie epiche, ma di una dignità silenziosa che aspettava il momento giusto per alzare la testa.
Oggi il Portogallo si è rialzato, con la stessa forza e la stessa malinconia che lo caratterizzano da sempre. Ha superato crisi economiche, ha trovato il modo di reinventarsi.

Ma non ha dimenticato. Il Portogallo non ha bisogno di nascondere le sue cicatrici, perché sa che la memoria è l’unico modo per non ripetere gli errori del passato. Camminando per Lisbona, tra i vicoli di Alfama o sulle rive del Tago, si può ancora percepire il peso della storia. Non è un peso che schiaccia, ma uno sguardo rivolto al futuro con la consapevolezza di chi sa da dove viene.

Perché la saudade non è mai rassegnazione. Definirla semplicemente nostalgia sarebbe riduttivo. La saudade non è il rimpianto per ciò che è stato, né una rassegnazione al tempo che passa. È una ferita lieve, una dolce inquietudine, un legame indissolubile tra il passato e il futuro.

È lo sguardo rivolto all’oceano, la consapevolezza di ciò che è stato lasciato indietro e il desiderio di ciò che ancora deve arrivare. È memoria, ma anche speranza. Il Portogallo vive nella saudade, ma non si ferma mai. E forse è proprio questa la sua forza più grande. Non dimenticare, ma trasformare il ricordo in spinta per andare avanti.

(Federica Cannas)


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