Se la Turchia è una potenza con l’immunità


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Istituita nel 1949 per unire Europa e America nella guerra fredda, la Nato sta diventando uno strumento spesso pernicioso, che sopravvive nel disorientamento, implicato in conflitti armati fallimentari. Alla sua guida una potenza Usa poco disposta a immettersi in un mondo multipolare, impelagata costantemente in manovre torbide, abituata a suscitare spettri che poi non controlla.

Alcuni Stati membri  –  Turchia in testa  –  usano la Nato per dilatare nazionalismi e squilibri regionali senza mai doverne rispondere. Non incarnando più una linea chiara, l’Alleanza andrebbe sciolta e l’idea d’occidente ridiscussa sul serio: nessuno lo fa.

È quanto si evince dall’inchiesta, pubblicata ieri nel nostro giornale e come sempre accuratissima, condotta da Seymour Hersh sulla recente crisi siriana. Al centro dell’indagine: la guerra sventata per un pelo contro Damasco, nell’autunno scorso, e la maniera in cui l’amministrazione Usa ha rischiato di cadere in una trappola che si era confezionata con le proprie mani. Una trappola congegnata dal governo Erdogan, in congiunzione con regimi che l’occidente s’ ostina a ritenere amici (Arabia Saudita, Qatar) e assecondata agli esordi dallo stesso Obama.

Tutti ricordiamo l’incidente che quasi trascinò America e Europa in un’ennesima guerra, nel 2013. All’origine, un micidiale attacco con armi chimiche (il sarin), il 21 agosto nelle periferie di Damasco, che fece centinaia di morti. Fu subito accusato il governo siriano, e Obama dichiarò che la Linea Rossa, da lui fissata il 20 agosto 2012, era stata sorpassata. L’intervento militare fu presentato come ineludibile, e il governo inglese e quello francese assentirono (il ministro Bonino annunciò che l’Italia non avrebbe partecipato, senza un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu).

Come in Iraq, mancavano tuttavia prove evidenti delle colpe di Assad. L’occidente e la Nato sono rapidi a parlare; lenti a comprendere gli intrichi regionali, oltre che a imparare da sbagli passati. Ubriacati dalle rivoluzioni arabe, non avevano calcolato le loro degenerazioni islamiche, bellicose. Avevano spento Gheddafi creando caos, e il disastro minacciava di ripetersi, amplificato, a Damasco. Inutilmente lo spionaggio americano aveva fornito le prove, sin dalla primavera del 2013, che l’esercito siriano non era l’unico a possedere il gas nervino. La Casa Bianca prima ignorò l’avvertimento, poi fu presa dai dubbi, poi cambiò di nuovo idea e presentò l’ipotesi dell’attacco siriano come un fatto incontrovertibile che giustificava la rappresaglia. Proprio come era avvenuto in Iraq, ai tempi di Bush jr. O in occasione dell’incidente del Golfo del Tonchino nel ’64, quando Johnson s’inventò un’offensiva viet-cong per scatenare bombardamenti del Vietnam del Nord.

Hersch constata il barcollare nefasto dell’amministrazione Usa, in Siria. Ingenti quantitativi di gas nervino sono finiti nelle mani del Fronte Al-Nusra, la fazione jihadista presente nel movimento anti-Assad. Tra i principali fornitori c’ era Erdogan (tramite l’azienda turca Zirve Export), e le consegne vennero organizzate all’inizio del 2012 in accordo con Arabia Saudita e Qatar, con l’assidua assistenza americana e dei servizi britannici. Si trattava di piegare l’Iran, alleato chiave di Damasco, e a questo scopo Washington consentì a incanalare armi chimiche in provenienza dagli arsenali di Gheddafi in Libia. Quando Washington cominciò a tergiversare, nel 2013, l’asse turco-saudita si diede un obiettivo preciso: “fabbricare” un attacco chimico di vaste proporzioni, attribuirlo a Assad, e mettere nell’angolo Obama stringendolo nella morsa della Linea Rossa.

Nell’ultima fase dell’operazione Obama tentò una marcia indietro, cercando di divincolarsi dall’accordo segretamente concluso con i tre “amici” dell’occidente: con la Turchia membro della Nato, e con Arabia Saudita e Qatar. Fu a quel punto che Erdogan, sentendosi abbandonato, ordì l’eccidio del 21 agosto. L’orrore causato dall’uso del sarin nei sobborghi di Damasco avrebbe indotto la Casa Bianca a rientrare nei ranghi e a proclamare infranta la Linea Rossa. Cosa che Obama fece, anche se ancora una volta, alla fine, tornò sui suoi passi: accolse la promessa siriana di smantellare le armi chimiche, accettò la mediazione di Putin, e fermò l’offensiva contro Damasco.

C’è qualcosa di marcio in occidente e nella Nato, se un paese membro può impunemente, addirittura tramite carneficine, portare l’Alleanza sul bordo della guerra. Se l’impunità impedisce che la verità venga alla luce: la verità di un’America incapace di imbrigliare le deviazioni violente di propri alleati, e l’uso che vien fatto della Nato come scudo, e come scusa. E c’è del marcio nell’Unione europea, che da anni tratta con Ankara senza mai indagare sulle sue condotte di potenza regionale irresponsabile. Erdogan ha vinto di nuovo le elezioni, il 30 marzo, e subito ha minacciato gli oppositori interni ed esterni senza tema d’esser redarguito: “Chi ha attaccato la Turchia è rimasto deluso, e da domani può essere che qualcuno scapperà. Noi però entreremo nei loro covi, e loro pagheranno il prezzo”.

Questo significa che nessuna istituzione occidentale  –  Nato o Unione europea  –  è in grado di garantire un ordine nel mondo, come pretende. È vero piuttosto il contrario: ambedue stanno divenendo garanti del caos, e di manovre che mal-governano e neppure capiscono. Continuano a considerare Siria e Iran grandi nemici, e non si rendono conto che stanno invischiandosi in un Grande Gioco a fianco di alleati inaffidabili (Turchia, Arabia Saudita, Qatar), il cui primo interesse strategico è regolare i conti con l’Islam sciita.

La cosa più inquietante è la volubile incompetenza degli Stati Uniti, nel Grande Gioco. Solo in parte dominano la storia che fanno, divisi tra establishment militare, servizi, ideologi politici. Washington precipita spesso in imboscate di cui si libera a stento (quando si libera, ricade nel vecchio bipolarismo russo-americano). Lo si è visto in Iraq, Afghanistan, Libia. Appena due giorni prima dell’attacco che aveva programmato in Siria Obama chiese l’approvazione del Congresso, e fu il primo segno di un ritiro volontario dall’operazione turco-saudita, opportuno ma umiliante. Lo stesso era successo nell’ormai irrilevante Inghilterra: Cameron s’ era già armato di tutto punto, e il 30 agosto 2013 il Parlamento votò contro e lo svestì.

L’accumularsi di simili incidenti dovrebbe spingere l’Europa a dotarsi di una comune politica estera e di difesa, che non sia al traino della sempre più fiacca, ingabbiata potenza Usa. Dal 2005 Bruxelles negozia con Ankara, rinviando continuamente l’ingesso nell’Unione, ma la questione decisiva non l’affronta: in Europa non si entra con un’intatta sovranità assoluta, e questo nessuno s’azzarda a dirlo a chi si candida all’adesione (analogo errore fu commesso nell’allargamento a Est). Non si entra neppure senza la memoria dei propri misfatti: nel caso turco, il genocidio degli armeni nel 1915-16. Non è una questione minore, visto che Erdogan non esita a produrre e distribuire nel mondo il gas nervino, e a provocare massacri pur di raggiungere  –  sotto l’ombrello della Nato  –  le proprie mire nazionaliste.

Il caso siriano e la trappola turco-saudita (originariamente turco-saudita-americana) confermano che l’ordine mondiale non può

più essere affidato alla sola e imprevedibile leadership Usa. Il nuovo ordine ha da essere multipolare, e l’Europa dovrà, in esso, conquistarsi un suo spazio. L’attacco occidentale contro la Siria è stato cancellato all’ultimo minuto, ma casi simili possono riprodursi, e che le cose erano marce lo si saprà sempre troppo tardi. Troppo tardi si apprenderà che Occidente è parola piena di strepito, buoni propositi, vista corta, e anche inciviltà.

(Barbara Spinelli – La Repubblica del 10 aprile 2014)

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