(Simona Deidda – Istanbul) – Sono passati 16 anni dall’arresto del leader curdo Abdullah Öcalan, APO com’è conosciuto dal suo popolo. Era, infatti, il 15 gennaio 1999 quando Öcalan fu arrestato in Kenya mentre si dirigeva all’ambasciata greca a Nairobi. Fu un vero e proprio complotto internazionale che ha visto coinvolti agenti segreti turchi, la CIA e gli agenti del MOSSAD, nonché il nostro stesso paese, l’Italia, che con il rifiuto della concessione dell’asilo politico e l’espulsione dal territorio italiano dietro la pressione del governo di Ankara, si è reso complice di tale ingiustizia.
La cattura di Öcalan ha riacceso nell’anima del popolo curdo la paura di una rinnovata schiavitù, di perdita della libertà e del ritorno ad una società lacerata che con il proprio leader era svanita. La società reagì duramente contro organismi internazionali e governi “nemici” che non concessero l’asilo politico al leader Öcalan spingendolo nelle mani dei suoi aguzzini. Già prima della cattura di APO, il giorno della fuga dalla Siria, il 9 ottobre 1998, 63 persone si autoimmolarono dandosi fuoco dentro le carceri, nelle strade e nelle piazze con lo slogan “Non potete oscurare il nostro sole”. Era soltanto l’inizio di un lungo susseguirsi di suicidi, scioperi della fame, proteste e manifestazioni che ancora vanno avanti.
Il 15 febbraio rappresenta per il popolo curdo un giorno di lutto durante il quale si indossano abiti neri, alcuni digiunano e tutti si riversano nelle strade a protestare.
Le condizioni carcerarie del leader curdo non sono ordinarie. Egli si trova, infatti, nel carcere di massima sicurezza dell’isola prigione di Imralı, la cosiddetta Guantanamo europea, dove sino al 17 novembre 2009 era l’unico carcerato in isolamento totale. Le stesse visite di parenti e avvocati hanno incontrato nel corso degli anni dei grossi ostacoli. Inizialmente erano concesse visite di un’ora la settimana sia con famigliari che con avvocati, ridotte nel tempo a mezzora ogni 15 giorni, con incontri spesso saltati con varie scuse come il mal tempo, il guasto tecnico della nave e simili. Soltanto il 17 novembre 2009 è stato aperto un nuovo carcera sull’isola prigione in cui sono stati condotti altri 5 detenuti che hanno la possibilità di incontrare Öcalan un’ora alla settimana. Ciò è accaduto in seguito a diverse ispezioni per valutare le condizioni carcerario e lo stato di salute di Öcalan. Ma il risultato è stato sottoporre altri 5 detenuti alle stesse condizioni di isolamento inumano del leader curdo.
Il processo che ha seguito l’arresto, è stato un processo farsa in cui Öcalan è stato descritto come un terrorista e a seguito del quale è stato condannato inizialmente alla pena capitale, successivamente tramutata in carcere a vita.
Durante gli anni di prigionia il leader APO ha portato avanti un processo di pace tra il popolo curdo e il governo di Ankara. Già prima del suo arresto, durante il suo esilio in Europa, poneva delle condizioni al governo turco che permettessero una ritirata dei combattenti dai monti e una pace duratura. Le principali richieste riguardavano: la sospensione delle operazioni militari, la garanzia di un ritorno sicuro degli sfollati nei loro villaggi, l’abolizione del sistema delle guardie di villaggio, l’autonomia regionale, l’assicurazione dei diritti democratici, il riconoscimento ufficiale di identità, lingua e cultura curda, nonché l’accettazione della libertà religiosa e del pluralismo. Lo stesso cessate il fuoco fu proclamato per ben due volte dai guerriglieri curdi, ma dopo l’assassinio del presidente Özal (17 aprile 1993)il processo di pace avviato si interrompe e inizia un periodo sanguinoso che vede coinvolto esercito turco e guerriglieri del PKK.
Il processo di pace, conosciuto come “Processo Oslo-Imralı” riprende in seguito con delle richieste da parte del leader curdo al governo centrale che rientrano nella cosiddetta Road Map di Öcalan. L’ultima proclamazione del cessate il fuoco risale al 8 maggio 2013, con il ritiro delle truppe dei guerriglieri oltre i confini turchi, in Iraq, ma attualmente il processo vive una nuova situazione di stallo. È però la parte centrale della Road Map, la tesi dell’autonomia democratica, che si trasforma in un vero e proprio programma politico seguito sia nel Kurdistan settentrionale che in quello occidentale, con la proclamazione dell’autonomia di 4 cantoni nel Rojava.
L’arresto del leader curdo ha mobilitato in questi 16 anni non soltanto curdi, ma un numero importante di intellettuali, artisti, politici e attivisti da tutto il mondo che credono che per una pace duratura e sostenibile il leader curdo debba essere libero, tanto da mettere in atto una campagna per la liberazione di Abdullah Öcalan con una raccolta di firme a livello mondiale. L’iniziativa internazionale “Libertà per Abdullah Öcalan- Pace in Kurdistan” ha visto lo svolgimento di una serie di campagne. La prima campagna degna di nota si tenne tra il 2005-2006 con una raccolta di oltre 3 milioni di firme. Nel 2010 una nuova campagna è stata lanciata dal Sud Africa di Nelson Mandela, giunta in Europa nel 2012 e lanciata nel settembre dello stesso anno da Bruxelles, con il nome “Libertà per Abdullah Öcalan e i prigionieri politici in Turchia”. Quest’ultima campagna si è conclusa proprio in questi giorni, con una raccolta firme che si è rivelata essere la più grande al mondo per la libertà di un prigioniero politico. Il 14 febbraio sono, infatti, state presentate ben 10.328.623 firme al Consiglio d’Europa di Strasburgo.
È stata scelta proprio questa data significativa, la vigilia dell’arresto di APO, poiché il 15 febbraio si sono tenute manifestazioni di protesta e solidarietà per Öcalan in tutta la Turchia, in molte città europee, nonché nella Kobane liberata dai guerriglieri dell’ISIS. Serrande abbassate e negozi chiusi sono stati i simboli della giornata di lutto nella regione curda in Turchia in segno di protesta alla cospirazione internazionale. Molti cittadini curdi, così come gli esponenti dei partiti BDP e HDP e i loro uffici provinciali e distrettuali hanno mostrato i simboli neri del lutto. Durante le manifestazioni, come di consueto, non sono mancate violenze e arresti, in particolare in città come Şırnak e Doğubeyazıt, a conferma che il processo di pace è in fase di stallo e che la strada per una pace stabile e duratura è ancora lunga e in salita.