
Ciò che è iniziato nel 1948 è diventato qualcosa di ancora più oscuro. In questo anniversario, lo chiamiamo al-Ibādah – la Distruzione.
(Ghada Ageel – Professoressa di Scienze Politiche) – Quando mia nonna, Khadija Ammar, uscì dalla sua casa a Beit Daras per l’ultima volta nel maggio del 1948, iniziò un viaggio solitario. Anche se era accompagnata da centinaia di migliaia di palestinesi – anch’essi costretti ad abbandonare le loro amate case e terre per sfuggire all’orrore scatenato dalle milizie sioniste – non c’era nessuno al mondo a guardarli. Erano insieme, ma completamente soli. E non esisteva una parola per descrivere quell’esperienza devastante.
Col tempo, i palestinesi iniziarono a chiamare gli eventi del maggio 1948 con il nome di Nakba, ovvero “la catastrofe”. L’uso della parola nakba in quel contesto richiamava la memoria di un’altra catastrofe, l’Olocausto. I palestinesi stavano dicendo al mondo: appena tre anni dopo la tragedia che colpì il popolo ebraico in Europa, una nuova catastrofe – diversa, ma non meno dolorosa – si stava consumando nella nostra terra, la Palestina.
Tragicamente, la nostra catastrofe non è mai finita. A settantasette anni dall’espulsione di mia nonna, siamo ancora braccati, puniti e uccisi, per il solo fatto di voler vivere con dignità sulla nostra terra o di chiedere di poterci tornare.
Poiché non è mai davvero finita, commemorare la Nakba come evento storico è sempre stato difficile. Ma oggi si pone una nuova sfida: la Nakba è entrata in una fase nuova e terrificante. Non è più solo la continuazione dell’orrore iniziato 77 anni fa.
Oggi, la Nakba si è trasformata in quella che Amnesty International ha definito un genocidio trasmesso in diretta, una violenza non più nascosta negli archivi o sepolta nei ricordi dei sopravvissuti. Il dolore, il sangue, la paura e la fame sono visibili sugli schermi dei nostri dispositivi.
Per questo, la parola Nakba non è più sufficiente per descrivere ciò che sta accadendo al mio popolo e alla mia terra. Serve un nuovo linguaggio, una nuova terminologia che rifletta fedelmente questa fase della catastrofe palestinese. Serve una nuova parola che aiuti, si spera, a richiamare l’attenzione distolta del mondo sulla Palestina.
Sono stati proposti molti termini – e io stessa ne ho usati diversi nei miei scritti. Tra questi: democidio, medicidio, ecocidio, culturicidio, spaziocidio, Gazacidio, scolasticidio. Ognuno di questi nomi definisce con precisione un aspetto rilevante di ciò che sta accadendo oggi in Palestina.
Uno dei termini che trovo particolarmente potenti, da accademica, è scolasticidio. Mette in luce l’annientamento sistematico del sapere palestinese. Ogni università di Gaza è stata distrutta. Il 90% delle scuole è ridotto in macerie. I centri culturali e i musei rasi al suolo. Professori e studenti uccisi. Il termine, coniato dalla brillante studiosa Karma Nabulsi, descrive non solo la distruzione fisica delle istituzioni educative palestinesi, ma anche la guerra contro la memoria, l’immaginazione e l’intelletto indigeno.
Un altro termine evocativo e significativo è Gazacidio, reso popolare da Ramzy Baroud, che indica una campagna secolare di cancellazione, espulsione e genocidio mirata a questo angolo specifico della Palestina storica. La forza del termine è nella sua capacità di collocare storicamente e geograficamente il crimine, nominando esplicitamente Gaza come epicentro della violenza genocida.
Ma sebbene ciascuno di questi termini sia efficace, sono tutti troppo specifici e incapaci di racchiudere la totalità dell’esperienza palestinese. Gazacidio, per esempio, non comprende la realtà vissuta dai palestinesi in Cisgiordania e Gerusalemme Est o nei campi profughi sparsi nella regione. Scolasticidio non affronta l’apparente determinazione israeliana a rendere inabitabili le terre palestinesi. E nessuno di questi termini coglie l’intento dichiarato di Israele su Gaza: la distruzione totale. Il 6 maggio, il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha dichiarato con freddezza: “Gaza sarà completamente distrutta… e da lì [i civili] cominceranno a partire in massa verso Paesi terzi”.
Per questo propongo un nuovo termine: al-Ibādah, ovvero la Distruzione, per definire questa fase più recente della Nakba. Il termine riflette la retorica terrificante impiegata da Smotrich e da numerosi altri leader fascisti sionisti, e cattura la cancellazione sistematica in atto non solo a Gaza, ma in tutta la Palestina storica. Al-Ibādah è un termine ampio, che racchiude molteplici forme di annientamento: dal democidio al medicidio, dallo scolasticidio al culturicidio.
In arabo, la parola per genocidio è al-Ibādah jamāʿiyyah – “l’annientamento di tutti e tutto” – e ha al-Ibādah come radice. Il termine che propongo è una forma intenzionalmente ridotta di quella frase, trasformandola in un concetto che segna una condizione definitiva e permanente di distruzione. Non assegna una collocazione geografica specifica, ma trae forza concettuale dal pensiero di Pankaj Mishra (Il mondo dopo Gaza), secondo cui il trattamento riservato ai palestinesi a Gaza rappresenta una forma qualitativamente nuova di violenza genocida. Gaza, scrive Mishra, è la prima linea del progetto neocoloniale e neoliberale occidentale, che mira a consolidare l’ordine globale attorno all’ideologia della supremazia bianca. Usare l’articolo determinativo in arabo insieme al sostantivo – al-Ibādah – sancisce questa distruzione come una frattura storica, un momento che esige riconoscimento come svolta nella storia palestinese e nella coscienza globale.
Oggi, quando si parla di Palestina, la parola “distruzione” non è più sussurrata. Dall’esercito alla politica, dal giornalismo all’accademia, ampi settori dell’opinione pubblica israeliana abbracciano apertamente l’annientamento completo del popolo palestinese come obiettivo finale.
Intere famiglie vengono cancellate. Giornalisti, medici, intellettuali e leader della società civile sono deliberatamente presi di mira. La fame forzata è usata come arma. I genitori portano davanti alle telecamere i corpi dei propri figli per documentare il massacro. I giornalisti vengono uccisi in diretta. Stiamo diventando i martiri, i feriti, i testimoni, i cronisti della nostra stessa distruzione.
Mia nonna sopravvisse alla Nakba del 1948. Oggi, i suoi figli e oltre due milioni di palestinesi a Gaza vivono giorni ancora più oscuri: i giorni della Distruzione.
La mia cugina incinta Heba e la sua famiglia, insieme a nove vicini, sono stati uccisi il 13 ottobre 2023. Già pochi giorni dopo il 7 ottobre, decine di famiglie erano state sterminate: Shehab, Baroud, Abu al-Rish, Al Agha, Al Najjar, Halawa, Abu Mudain, Al-Azaizeh, Abu Al-Haiyeh.
Il 26 ottobre 2023, 46 membri della mia famiglia allargata sono stati uccisi in un solo attacco. A fine estate, il numero era salito a 400. Poi ho smesso di contare.
Mio cugino Mohammed mi racconta che evitano di dormire, terrorizzati di non svegliarsi in tempo per tirare fuori i bambini dalle macerie. “Restiamo svegli non perché vogliamo, ma perché dobbiamo essere pronti a scavare.” Il mese scorso, Mohammed è stato ferito in un attacco aereo che ha ucciso nostro cugino Ziyad, un operatore dell’UNRWA, e sua cognata. Nello stesso attacco sono stati feriti quindici bambini sotto i 15 anni. Quella notte, come aveva fatto decine di volte negli ultimi 18 mesi, Mohammed ha scavato tra le macerie per recuperarne i corpi. Mi racconta che i volti dei morti lo visitano ogni notte – parenti, amici, vicini. Di giorno sfoglia un vecchio album fotografico, ma ogni immagine è ormai segnata dal vuoto. Nessuna è rimasta intatta. Di notte, quei volti ritornano – a volte in sogni teneri, ma più spesso in incubi.
Questo mese, il 7 maggio, attacchi israeliani hanno colpito un ristorante e un mercato affollati nella stessa strada di Gaza City, uccidendo decine di persone in pochi minuti. Tra loro, il giornalista Yahya Subeih: sua figlia era nata quella stessa mattina. Era andato al mercato per comprare qualcosa per la moglie e non è mai tornato. Sua figlia crescerà segnando il compleanno nello stesso giorno in cui il padre è stato ucciso – un ricordo terribile impresso in una vita appena cominciata. Noor Abdo, un altro giornalista, aveva mandato a un’organizzazione per i diritti umani la lista dei suoi parenti uccisi in questa guerra. Il giorno dopo, il 7 maggio, il suo nome è stato aggiunto alla lista.
Un lavoratore del ristorante ha raccontato di un ordine di pizza fatto da due ragazze. Le ha sentite parlare. “È costosa, molto costosa” ha detto una. “Va bene” ha risposto l’altra. “Realizziamo il nostro sogno: mangiare una pizza prima di morire. Nessuno sa.” Hanno riso e ordinato. Poco dopo che la pizza è arrivata, il ristorante è stato bombardato e una delle due ragazze è stata uccisa. Non si conosce il destino dell’altra. Ma l’uomo racconta di aver notato che una fetta di pizza era stata mangiata. Possiamo solo sperare che chi è morta sia riuscita ad assaggiarla.
Questo, tutto questo, è al-Ibādah. Questa è la Distruzione.
Di fronte all’inazione globale, siamo pressoché impotenti.
Le nostre proteste, le nostre lacrime, le nostre grida sono cadute nel vuoto.
Ma ci restano le parole. E le parole hanno potere. Nella pièce teatrale irlandese Translations, che racconta la distruzione linguistica dell’irlandese da parte dell’esercito britannico all’inizio del 1800, il drammaturgo Brian Friel scrive che dare un nome a una cosa significa conferirle potere, “renderla reale”.
Allora, come ultimo atto di disperazione, che la commemorazione della Nakba di quest’anno sia il momento in cui diamo un nome a questa cosa, per renderla reale: al-Ibādah, la Distruzione.