Siria. A Raqqa, la grande prigione dell’IS da cui è impossibile scappare


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Vivere a Raqqa è come essere rinchiusi in «una grande prigione». Questa è la sensazione di chi oggi abita nella città della Siria settentrionale, un tempo considerata tra le più liberali del Paese, trasformata dal sedicente Stato islamico (Is) nella ‘capitalè dell’autoproclamato califfato. Sull’onda della strage di Parigi, la città simbolo dell’Is è finita nel mirino dei raid aerei francesi e russi. Testimoni hanno riferito di numerosi miliziani dell’Is uccisi negli attacchi condotti nelle ultime 72 ore. Da quando l’Is ha messo le mani su Raqqa, a gennaio 2014, la città è precipitata in una sorta di oscurantismo medievale.

«La gente qui vive in uno stato tale da non capire se sia viva o morta», racconta al Financial Times un attivista del gruppo ‘Raqqa viene sgozzata in silenzio’, che da anni denuncia attraverso i social i crimini commessi dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi. A Raqqa vige un’interpretazione estremista della sharia. Le esecuzioni in pubblico sono all’ordine del giorno, se ne contano a decine negli ultimi mesi. I responsabili di omicidio vengono condannati a morte. Stessa sorte è riservata a chi è sospettato di opporsi allo Stato islamico e ai gay. Alcuni vengono crocifissi e i loro cadaveri esposti nei luoghi più in vista della città come monito per terrorizzare la popolazione. Gli omosessuali vengono lanciati dai tetti dei palazzi.

Per le donne in particolare la situazione è insostenibile. Per loro la città è «come una grande prigione», raccontano gli attivisti, spiegando che non possono lasciare la città se hanno meno di 45 anni. Uno dei fondatori del gruppo, Abu Ibrahim al-Raqqawi (nome di fantasia), ha rivelato oltre 270 casi di ragazze costrette a sposare sostenitori del califfato. Ma Raqqa è diventata anche un punto di raccolta per i ‘foreign fighters’, ovvero cittadini con passaporti occidentali che ingrossano le fila delle milizie dell’Is in Siria e in Iraq. Era proprio a Raqqa che si nascondeva ‘Jihadi John’, forse il più noto tra i ‘foreign fighters’, ucciso lo scorso 12 novembre in un’operazione congiunta Usa-Regno Unito. Il britannico di origine kuwaitiana era diventato il volto terribile della barbarie dell’Is mostrandosi nei video come il boia degli ostaggi occidentali.

Risale all’agosto del 2014 la prima apparizione in video di ‘Jihadi John’, con il coltello in mano, per la decapitazione del giornalista americano James Foley. Negli ultimi giorni la pressione militare della Coalizione guidata dagli Usa e dell’esercito russo si sta facendo sempre più forte su Raqqa. Oltre ai raid dal cielo, ieri le forze armate di Mosca avrebbero lanciato missili da crociera dalle loro navi nel Mediterraneo contro obiettivi nella città.

Fino a poco tempo fa, Raqqa era considerato un luogo relativamente sicuro se paragonato ad altre aree della Siria dove infuriano i combattimenti, proprio per il controllo soffocante che l’Is vi esercita. Migliaia di persone si sono rifugiate a Raqqa – spiega Ft – per sfuggire a morte certa. Qui i jihadisti sono riusciti a tenere in piedi una sorta di ‘Stato’, con tutte le contraddizioni del caso, garantendo anche alcuni servizi di base: quando i caccia francesi hanno colpito la rete elettrica della città, i danni sono stati riparati in 24 ore.

Raqqa è identificata ormai come il covo dei responsabili delle stragi di Parigi, Beirut e nei cieli del Sinai. Per questo motivo, dopo la strage del 13 novembre i missili francesi sono piovuti tra le sue strade alla ricerca di jihadisti. Ma in molti sono scettici sull’efficacia dei raid, sostenendo che si tratta di un modo per placare l’opinione pubblica. «Se dicessero abbiamo colpito al-Shadadi», nessuno capirebbe dove è stato eseguito il raid, «ma quando dicono ‘abbiamo colpito Raqqa’ tutti i francesi capiscono», sostiene l’analista siriano esperto di Is, Hussam al-Marie.

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