(Raimondo Schiavone) – La vicenda di questi giorni del dottor Hussam Abu Safiya, mi ha fatto tornare alla mente uno dei miei viaggi a Damasco. Era il lontano 2013, il secondo anno di guerra in Siria, quella guerra voluta da Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita e Qatar con il supporto logistico dei servizi Israeliani. La vicenda recente del dottor Hussam Abu Safiya mi ha riportato alla mente uno dei miei viaggi a Damasco. Era il 2013, il secondo anno della guerra in Siria, un conflitto orchestrato da Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita e Qatar, con il supporto logistico dei servizi israeliani.
Era il terzo giorno della mia visita alla città. Avevamo già fatto tappa presso le televisioni nazionali e il Parlamento, quando giunse una notizia che scosse tutti noi: i compagni dell’OLP erano finalmente riusciti a liberare il campo profughi palestinese di Yarmuk. Un momento carico di significato e di speranza in un contesto segnato da violenza e devastazione. Un campo profughi anomalo, perché di fatto era diventato, e lo è ancora, un quartiere della Città di Damasco. Come una periferia di una delle nostre città, il campo era stato costruito in un’area circoscritta, con palazzi molto alti, eretti in periodi diversi e spesso in condizioni precarie.
Tuttavia, nel complesso, appariva in condizioni migliori rispetto a molti dei campi profughi che avevo visitato in Libano. Prima però di incontrare i responsabili del campo, qualcosa colpì la nostra attenzione. La prima visita fu quella al pronto soccorso, da loro chiamato ospedale del Campo: due stanze in un sottoscala, una brandina e due letti, poche medicine. A presidiarlo, guidarlo e ad occuparsi dei malati, per lo più feriti, c’era il dottor Maher, supportato da alcune donne volontarie.
Per accedere alla struttura, una scala stretta che portava sotto terra. Il nostro amico medico, che parlava italiano, perché lo aveva studiato negli anni ’70, come molti giovani palestinesi di quel periodo, ci accolse nella sua stanza dopo averci mostrato la struttura. La visita fu breve: uno spazio di massimo 80 metri quadri, qualche branda occupata principalmente da uomini feriti, flebo sparse tra i letti, un piccolo armadietto con poche medicine e una luce fioca.
Il dottor Maher ci invitò a entrare nella sua piccola stanza, un ambiente di pochi metri quadrati con una vecchia scrivania e numerose fotografie appese ai muri e alla porta. Lo scaffale dei farmaci, quasi vuoto, era motivo di una sua lamentela: “Faccio quel che posso”, ci disse con un sorriso stanco. Da quando i jihadisti, fatti entrare a Yarmuk da Hamas, avevano distrutto l’ospedale del campo, quella piccola stanza era diventata l’unico presidio sanitario a disposizione.
“Ci siamo attrezzati come abbiamo potuto. Qui facciamo il primo intervento, feriti, bambini ammalati, donne, uomini, siamo solo io e mia moglie e alcune volontarie. Anche mia moglie è medico”. Ci offrì un caffè amaro, mentre raccontava di appartenere al Fronte Popolare e di avere studiato in Unione Sovietica. Una ritornato in patria, rimase a combattere con i suoi compagni palestinesi, prestando la sua opera di medico.
“Altri medici sono stati costretti a scappare, i jihadisti volevano che lavorassimo per loro. Chi si è rifiutato, è scappato oppure ha deciso di servire la causa, come abbiamo fatto io e mia moglie”. “Ora l’ospedale, si fa per dire, è vuoto – raccontó Mhair – ma in certe giornate abbiamo avuto anche 400 pazienti da medicare e visitare, tutti assiepati in questo spazio ristretto”.
Uno del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina un’organizzazione politica e militare palestinese di orientamento marxista-leninista e socialista rivoluzionaria, fondata nel luglio 1967 da George Habash, il cui obiettivo strategico è «la liberazione della Palestina dall’occupazione coloniale sionista e la creazione di uno Stato democratico palestinese su tutto il territorio della Palestina storica, con Gerusalemme quale sua capitale.
Dai primi del 1968, il FPLP aveva addestrato da 1.000 a 3.000 guerriglieri palestinesi. Riceveva finanziamenti dalla Siria dove era anche il suo Quartier generale. Il FPLP aderì nel 1968 all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), che radunava tutte le organizzazioni palestinesi militanti, diventando la seconda organizzazione più numerosa al suo interno, dopo il Fatah di Yasser Arafat. Nel 1974, esso abbandonò il Comitato Esecutivo dell’OLP tornandone a far parte nel 1981.
Il medico seguì per un attimo il nostro sguardo distratto dalle foto appese nelle pareti della stanza. Arafat, Craxi, Berlinguer, Gramsci, fra gli altri che non sto a raccontare, perché sarebbe banale capire quali possano essere le foto in una stanza di un medico combattente di ispirazione Maxista Leninista che ha studiato in Unione Sovietica. Da quella visione partì il racconto della sua militanza e della vicinanza con alcuni leader italiani. Vicinanza e riconoscenza alla mente illuminata del compagno Gramsci ed al suo pensiero politico, ma anche al fascino di Berlinguer e del suo eurocomunismo, per arrivare alla amicizia sempre mostrata da Bettino Craxi verso il Popolo Palestinese. Su Arafat espresse pensieri contrastanti, ma il rispetto verso quello che è stato l’unico ed ultimo leader palestinese.
La presenza di quegli italiani ci inorgoglisce, quasi commuove, perché a volte anche noi italiani non abbiamo compreso appieno la grandezza di questi uomini e soprattutto l’ispirazione resistenziale che le loro parole avevano quando incoraggiavano il Popolo Palestinese alla resistenza. Quel racconto di un resistente, di un militante che difendeva il proprio popolo usando la scienza medica come arma di militanza, era pieno di simbologia e riportava alla nostra memoria le pagine lette nei libri di scuola della nostra resistenza anti nazista e anti fascista.
Le parole dure del dottor Maher verso i “traditori” di Hamas, accusati di aver permesso l’ingresso dei jihadisti nel campo, ci fecero capire la complessità di quella guerra in Siria e il ruolo ambiguo che stavano giocando anche i palestinesi, divisi tra fazioni in conflitto.
La conversazione fu interrotta bruscamente dall’arrivo di Abu Akram, il capo del campo, che ci sollecitò a raggiungere il luogo dell’incontro prima che calasse il buio. Ci spiegò che, sebbene i tagliagole stessero abbandonando Yarmuk, lo facevano facendo esplodere palazzi e case per coprire la loro fuga. Ma questa è una storia che avevamo già raccontato. Scappavano come ratti, gli stessi che oggi hanno preso il governo del Paese.
Non so se il dottor Maher sia ancora vivo, né se lo sia la sua cara moglie, ma le sue idee erano così potenti da sembrare scolpite a fuoco in quel tugurio chiamato ospedale.