Siria, Usa e Turchia schierano sistemi missilistici lungo il confine turco-siriano


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L’avanzata dello Stato islamico (Is) nel nord della Siria, favorita dai violenti scontri fra esercito e gruppi di opposizione, preoccupa Turchia e Stati Uniti, che considerano ormai fallito, almeno de facto, la tregua iniziata lo scorso 27 febbraio, ma soprattutto i colloqui di Ginevra mediati dalle Nazioni Unite. Dopo i raid aerei e il sostegno ai gruppi armati dell’opposizione – comprese alcune sigle jihadiste ritenute da Mosca e Damasco a tutti gli effetti gruppi terroristici – Ankara e Washington hanno deciso di mutare, almeno in parte, la propria strategia militare impiegando batterie missilistiche a medio raggio e forze speciali, per il momento fornite dagli Usa.

Da mesi l’Is sta colpendo con razzi Katyusha i villaggi turchi della provincia di Kilis poco oltre il confine turco-siriano dalle sue postazioni a nord di Aleppo. L’ultimo attacco è avvenuto il 24 aprile scorso e vi sono rimaste uccise due persone. Negli ultimi mesi le forze di sicurezza di Ankara hanno risposto e distrutto diverse postazioni di lancio, utilizzando droni e telecamere termiche per individuati i nascondigli, che però vengono bersagliati da proiettili di artiglieria pesante con raggio d’azione limitato a circa 40 chilometri.

L’esercito turco ha bombardato la località di Duwaibik, a circa 12 chilometri dal confine, uccidendo tredici miliziani. Altri undici miliziani dell’Is erano morti in un altro attacco dell’artiglieria turca contro due lanciarazzi sempre a Duwaibik che si trova anche a 26 chilometri da Kilis. L’attuale tattica militare rientra comunque in una strategia di risposta e non di attacco, proprio a causa delle limitate capacità dei pezzi di artiglieria schierati lungo il confine. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha rivelato in un’intervista al quotidiano “Haberturk” che la Turchia ha raggiunto un accordo con gli Stati Uniti per l’impiego del sistema lanciarazzi ad alta mobilità Himars nelle zone al confine con la Siria. “Il sistema sarà dislocato lungo il confine siriano a partire da maggio”, ha sottolineato Cavusoglu, il quale ha osservato che in questo “modo la Turchia sarà in grado di colpire le postazioni di Daesh (acronimo in arabo per Stato islamico in Iraq e in Siria) in modo più efficace”.

Il ministro degli Esteri ha precisato, inoltre, che l’impiego del sistema Himars permetterà all’esercito di colpire le posizioni dello Stato islamico entro un raggio di 90 chilometri, sopperendo ai limiti dell’artiglieria pesante turca i cui proiettili hanno un raggio d’azione di circa 40 chilometri. Oltre a rispondere ai continui bombardamenti da parte dello Stato islamico contro i villaggi della provincia di Kilis, il sistema Himars consentirà di ampliare il controllo del corridoio di Manbij, valico fra Siria e Turchia utilizzato dai terroristi per i propri traffici illegali e per il trasferimento di combattenti provenienti dalla Turchia. Oltre all’impiego del sistema Himars Ankara avrebbe chiesto agli Usa anche l’utilizzo di droni equipaggiati con missili Hellfire, attualmente dislocati nella base aerea di Incirlik nella provincia meridionale di Adana.

Le rivelazioni di Cavusoglu sono state confermate dal maggiore generale Peter Gersten, vice comandante della Coalizione internazionale contro lo Stato islamico, che parlando ai giornalisti accreditati al Pentagono in videoconferenza da Baghdad ha sottolineato il futuro dislocamento di sistemi lanciarazzi nel sud-est della Turchia nelle aree al confine con la Siria. L’alto ufficiale ha inoltre aggiunto che le postazioni mobili di missili a lungo raggio di quarta generazione verranno dislocate in tutta la regione.

Gersten ha osservato che un sistema è già presente in Giordania, mentre altre batterie sono attualmente situate nelle provincie irachene di al Anbar e nell’area di Mosul. L’alto ufficiale statunitense non ha precisato l’ubicazione dei sistemi in Turchia, che serviranno per bombardare le postazioni dello Stato islamico al di là del confine compresa per sostenere la campagna di bombardamenti contro la capitale de facto dello Stato islamico di al Raqqa.

“Vi dirò che è una decisione studiata di recente e stiamo lavorando a stretto contatto con i nostri partner forti come la Turchia per comprendere dove poter posizionare il sistema e renderlo operativo”, ha dichiarato Gersten. La Turchia vuole stabilire una zona di sicurezza nel tratto lungo 98 chilometri fra il valico di Manbij e i campi profughi situati lungo il confine turco-siriano. Da tempo il governo turco preme per la creazione di una “zona di sicurezza” nel nord della Siria, ma fino ad oggi ha ricevuto forti opposizioni dai paesi occidentali, in particolare dagli Stati Uniti. Lo scorso 24 aprile il cancelliere tedesco, Angela Merkel, parlando in una conferenza stampa congiunta ad Hannover con il presidente Usa Barack Obama, ha sottolineato l’importanza della creazione di “zone sicure” nel paese devastato dalla guerra. L’ipotesi di creare una zona di sicurezza è per il momento rigettata dall’amministrazione Usa.

Nella stessa conferenza stampa il presidente Obama ha fatto notare la difficoltà di stabilire una zona sicura o un’area di interdizione al volo, sottolineando che potrebbe portare a conflitti con gli aerei russi che sorvolano la Siria, oltre a prevedere l’impiego di forze di terra sul terreno.

Il 25 aprile il presidente Usa Barack Obama, a soli 4 giorni dal suo incontro con il re saudita Salman e i delegati dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) ha annunciato l’invio in Siria di altri 250 uomini delle forze speciali, a fianco dei ribelli che combattono ufficialmente contro le forze dello Stato islamico nel nord del paese. In totale, il numero dei militari statunitensi impegnati nel paese salirà così a circa 300. Un’ipotesi respinta sia da Mosca che da Damasco, preoccupate dal fatto che le forze speciali americani abbiano come vero obiettivo l’esercito siriano.

L’annuncio dell’invio di nuove forze di terra era stato anticipato la scorsa settimana, dal segretario della Difesa Usa Ashton Carter. Obama ha specificato che i militari non avranno ruolo di combattimento, ma di consulenza e addestramento delle forze. “Non guideranno i combattimenti sul campo, ma saranno essenziali per fornire addestramento e assistenza alle forze locali”, ha spiegato il presidente ad Hannover. Fonti dell’amministrazione presidenziale statunitense hanno più volte sottolineato l’importanza delle forze Usa sul campo, che avrebbero fornito informazioni d’intelligence vitali per condurre gli attacchi aerei contro lo Stato islamico.

Il “New York Times” definisce però “rischiosa” la decisione di espandere la presenza militare Usa sul campo. Nonostante la Casa Bianca abbia escluso l’impiego diretto delle forze speciali Usa, resta il fatto che i militari statunitensi “saranno coinvolti in operazioni militari, e lavoreranno senza una formale autorizzazione da parte del Congresso”. Inoltre, sottolinea il quotidiano Usa, al contrario di quanto accade in Iraq, dove le forze Usa operano su richiesta esplicita del governo di Baghdad, la presenza statunitense in Siria è osteggiata dal governo di Damasco, e per tale ragione manca di un chiaro fondamento legale sulla base del diritto internazionale.

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