
Il genocidio di Gaza visto dagli ebrei ortodossi
(Franz di Maggio) – Charedì sono gli ebrei ortodossi strettamente osservanti, quelli che si vedono comunemente sfilare per le strade di Gerusalemme con capelli e barbe lunghe, cernecchi,camicia bianca, soprabito e pantaloni neri, kippà sovrastata da imponente cappello di feltro a tese ampie.
Non sono certo andati a combattere con cotale eleganza, no. Anche perché, loro, non ci vanno proprio a combattere. Non sono certo disertori, anche perché loro alla “patria” ci tengono parecchio, ma sono esentati dalla leva.
Mentre a Gaza va in scena l’ennesimo, ignobile spettacolo della distribuzione di cibo ai gazawi – insufficiente, priva di prospettiva, mediatizzata e con il consueto tiro al bersaglio su quei disperati – che catalizza l’attenzione. “È stato Hamas”, “È stato l’IDF”, “È stato un clan”, “Non è stato nessuno, è propaganda”.
Proviamo a capire qualcosa di più grazie ai nostri contatti sul campo. Contatti sia dalla parte palestinese che dalla parte israeliana. In questo caso persone che si espongono quotidianamente divenendo automaticamente dei bersagli per il governo Netanyehu.
Ciò che appare sempre più chiaro è che le soluzioni proposte dall’esterno non trovano terreno fertile. Dunque la soluzione deve trovarsi necessariamente tra i confini dello stato ebraico e quello dei territori palestinesi.
La situazione attuale è un lose-lose per tutti.
L’unica logica che al momento gli ebrei di buona volontà riescono a vedere è quella del contenimento del danno.
Nel Likud, il partito del premier e tra i sionisti religiosi di destra, che hanno una base che mal digerisce l’esenzione dalla leva per gli haredim – si sta aprendo una frattura seria, che si somma a quella già presente nella coalizione.
Il portavoce dell’ex speaker e membro del governo Edelstein accusa chiaramente di irresponsabilità i membri dei partiti ortodossi che difendono questo loro “privilegio”: “Se chiamare gli haredim alla leva militare, in una situazione in cui stiamo combattendo per la nostra casa, mentre i miei fratelli si consumano nei turni di riserva, le loro famiglie crollano e le coppie divorziano perché non reggono il peso della leva, è considerato ‘vendetta personale’ – allora io sono a favore della vendetta.”
Evidente che le tensioni sempre più presenti nell’opinione pubblica si stiano riverberando nel governo. Al punto da aver fatto sbottare nei confronti di Edelstein i vertici governativi : “L’ostinazione politica di Edelstein ci sta trascinando tutti verso nuove elezioni, proprio nel mezzo di un’operazione di annientamento a Gaza, mentre gli ostaggi sono ancora nelle mani di Hamas e con la minaccia nucleare iraniana sullo sfondo. È pura follia e totale irresponsabilità – tutto per calcoli politici meschini e per vendetta personale.”
Edelstein ha l’ambizione, e le carte in regola, per succedere a Netanyahu (quando se ne andrà – più o meno in manette). Stesse mire di alcuni parlamentari di destra, molto vicini al sionismo religioso radicale e con un elettorato molto simile.
Edelstein può arruolare 3-4 parlamentari dal Likud. Un danno per il momento calcolato da
Netanyahu che deve solo guadagnare tempo: una transizione “soft” verso nuove elezioni. Ma anche questa opzione ha scarse probabilità, se il suo partito si spacca sotto di lui.
I partiti haredim, intanto, cercano di galleggiare: puntano a superare il 1° luglio senza vedere saltare i loro privilegi economici e senza un’ordinanza della Corte che imponga di arruolare i propri rampolli.
La svolta possibile riguarda solo una possibile trattativa tra i partiti degli ebrei ortodossi e coloro che potrebbero sostituire l’attuale governo (Bennett?). Anche se tutti apparentemente giocano pesante la verità è un’altra: se domani partissero tutte le cartoline di richiamo e i giovani haredim obbedissero, l’IDF non ha le risorse per gestire l’afflusso: circa 10.000 giovani ortodossi l’anno. Però, tenendo conto delle esigenze religiose, delle infrastrutture disponibili e della capacità organizzativa, il sistema potrebbe assorbirne inizialmente meno della metà. E ci vorrebbero 3–4 anni per arrivare a pieno regime. Questa gradualità, e forse qualche ulteriore compromesso, potrebbe rendere accettabile un accordo per i partiti ultraortodossi.
In questa situazione, nor rimarrebbe a Netanyahu che la carta della disperazione: potrebbe essere tentato da un nuovo attacco militare, che congelerebbe tutto.
Non l’Iran – per non compromettere i rapporti con Trump – ma emerge tra i collaboratori del premier l’idea di promuovere un conflitto a bassa intensità in Siria, atto a contenere le ambizioni turche.
Insomma un rebus non facilmente risolvibile perché il sistema Paese è al limite della sopportazione. Così come sono al limite della sopportazione molti strati della popolazione, e con una certa evidenza anche i supporters del premier; quasi due anni di guerra hanno devastato il tessuto sociale ed economico di Israele, Netanyehu non può mollare, pena una gogna non solo mediatica, ma il conto alla rovescia è cominciato.
E molti ormai – anche nella destra israeliana – sperano che non sia così lungo.