Sunniti, sciiti e velo islamico. Piccolo glossario sull’Islam


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(di Angela Lano) 

SUNNITI

Profeta – Muhammad (nome completo: Abu- l-Qasim Muhammad ibn ʿAbd Allah ibn ʿAbd al-Muttalib al-Hashimi) nacque a Mecca intorno al 570 d.C. e morì a Medina nel 632. Era parte del clan hashimita della potente tribù araba dei Quraysh. Fu il Profeta e il fondatore della religione musulmana, secondo la tradizione islamica, incaricato da Dio (Allah), attraverso l’angelo Gabriele (Jibril), di diffondere la sua Parola (il Corano) tra gli Arabi, allora politeisti.

Nascita sunniti – È la corrente che si formò dopo la morte del profeta Muhammad tra coloro che appoggiarono la nomina a califfo (khalifa, vicario, successore) di Abu Bakr, uno dei primi compagni, convertiti all’Islam e uno dei suoceri di Muhammad (era il padre di ‘Aisha, la giovane e battagliera sposa). I sunniti sono i seguaci della sunna (pratica, tradizione) secondo quanto raccontato dai compagni del Profeta (sahaba) negli ahadith (hadith, al singolare), detti e fatti di Muhammad. Essi si considerano il ramo ortodosso dell’Islam.

Diffusione – La maggior parte dei musulmani sono sunniti. Circa l’80% del totale.

Tradizione – I sunniti, chiamati anche Ahl al-Sunna, credono che la sunna del Profeta – di cui sono parte, insieme al Corano, la collezione di ahadith – debba essere seguita come esempio da tutti i musulmani. Gli ahadith, decine di migliaia, riportati da amici e compagni della prima ora, furono scelti da ricercatori e storici dei secoli XI e XII, sulla base di criteri di affidabilità in una isnad (catena di trasmissione) che doveva arrivare, a ritroso, fino a Muhammad. I sunniti accettano solo detti riferiti esclusivamente dal Profeta e non dei suoi discendenti.

Clero – Non c’è un vero e proprio clero. Chiunque, preparato islamicamente, può essere un imam, cioè colui che guida la preghiera, il culto, o essere chiamato shaykh. Il mondo arabo sunnita brulica di shuyukh (plurale di shaykh), perché è sufficiente essere benestante, o anziano, o avere un ruolo di visibilità e responsabilità in gruppi, associazioni, comunità, o nella società, per ottenere tale titolo onorifico, in segno di rispetto o deferenza. Sono invece i saggi, gli studiosi (‘ulema’, mufti, mullah) che dominano il discorso religioso con le loro prediche, in particolare su internet o in televisione.

Imam – È colui che guida la preghiera, cioè colui che sta davanti ai fedeli e conduce il culto; e i quattro fondatori delle scuole giuridiche. Il titolo imam era usato parallelamente a quello di Khalifa.

Testi sacri – Sono il Corano e gli ahadith.

Religione e politica – Secondo i sunniti stato e religione non sono separabili.

Scuole di giurisprudenza – I sunniti prevedono scuole (madhhab, strada, cammino) di giurisprudenza (fiqh), che seguono le linee di quattro grandi pensatori: malikita, shafi’ita, hanbalita e hanafita. Tali scuole giuridiche si formarono entro il XII secolo: il sunnismo segue un pensiero fermo a quella epoca, con alcune riforme apportate nei secoli successivi, fino al riformismo islamico dell’Ottocento-Novecento, quello che portò poi alla formazione del neosalafismo e del fondamentalismo in generale. Nell’elaborazione delle leggi del diritto islamico i sunniti praticano il taqlid, inteso come accettazione, imitazione, emulazione.

Celebrante – Il predicatore, khatib, sta in piedi su un pulpito, minbar.

Moschee  – Sono costruzioni semplici e austere. A parte quelle del passato di architettura arabo-islamica o ottomana.

Pilastri del culto – Per i sunniti sono 5: 1) la testimonianza di fede, al-shahada; 2) la preghiera rituale, al-salah; 3) l’elemosina canonica, al-zakah; 4) il digiuno durante il mese di Ramadan, sawm o siyam; 5) il pellegrinaggio a Mecca almeno una volta nella vita, hajj.

Professione di fede (shahada) – Si ripete la formula: «Testimonio che non c’è divinità se non Iddio, e Muhammad è il suo Profeta». Questa frase è ripetuta anche durante il richiamo alla preghiera, l’adhan.

Atteggiamento nella preghiera – I credenti eseguono le preghiere con le mani congiunte all’altezza del diaframma, e su un tappeto. Stanno l’uno vicino all’altro, e alla fine del ciclo di orazioni, girano il capo a destra e poi a sinistra.

Donne –  Il ruolo delle donne e quello degli uomini, sia nelle società sciite sia in quelle sunnite, differisce in molti aspetti, e dipende da stato a stato. Alcuni studiosi prevedono lo jihad al-Nikah (un «matrimonio temporaneo per il jihad»): tale pratica legittima la partecipazione femminile al jihad attraverso il proprio corpo offerto ai jihadisti impegnati nelle guerre contro i nemici. (In realtà, a fronte di qualche decina di ragazze che si offrono volontarie, sperando nella ricompensa del paradiso, tale pratica è usata per legittimare decine di migliaia di stupri commessi – ad esempio – ai danni di bambine e ragazzine siriane sia in Siria che nei vari campi profughi).

Velo islamico* –  L’uso del velo per le donne musulmane è obbligatorio sia nel mondo sunnita sia nel mondo sciita, in base ai versetti di due sure del Corano (XXXIII, 59 e XXIV, 31). Esistono diversi tipi di velo  in uso tra le donne musulmane. Ognuno di essi è fortemente legato all’area di appartenenza geografica della donna e ne riflette la cultura, anche oltre l’aspetto puramente religioso.

Il Corano utilizza  due termini più specifici a proposito dell’abbigliamento femminile:

  • Khimar: normalmente viene identificato in un mantello che copra dalla testa in giù: alcuni modelli arrivano fino a sotto i fianchi, altri fino alle caviglie; a seconda della tradizione locale può avere un velo che copre anche il viso.
  • Jilbab: un lungo abito che copra completamente il corpo della donna. Oggi si usa come sinonimo di “abaya”.

Feste – I sunniti celebrano solo due feste: Eid al-Fitr, che segna la fine del mese di digiuno, Ramadan, e la Eid al-Adha, festa del sacrificio, alla fine del pellegrinaggio (hajj) alla Mecca.

Cibi e bevande – È vietata la carne di maiale, così come il consumo di alcolici.

SCIITI

Profeta – Nessuna differenza con i sunniti sulla figura di Muhammad.

Nascita sciiti – Da shiʿa, shi‘at ‘Ali, «partito di ‘Ali», cugino e genero di Muhammad. Si costituì, secondo la tradizione sciita, nel giorno di Ghadir Khum, quando Muhammad alzò la mano di ‘Ali mostrando che lui sarebbe stato il suo successore (khalifa) nella direzione della comunità islamica, umma. Gli sciiti credono che il califfato spettasse a ‘Ali e che gli fu ingiustamente sottratto con la nomina di altri tre successori, prima di lui – Abu Bakr, ‘Omar e ‘Uthman – che loro non riconoscono. Costituiscono il secondo gruppo dell’Islam.

Diffusione – Il 10-15% dei musulmani è costituito da sciiti delle diverse correnti (duodecimana, la principale, e poi ismaelita, zaidita). Lo sciismo (si veda la cartina) è diffuso in Iran (la maggioranza della popolazione), Iraq (un terzo della popolazione musulmana), Pakistan (20%), Arabia Saudita (15%), Bahrein (70%), Libano (27%), Azerbaigian (85%), Yemen (50%), Siria, Turchia, e in altre parti del mondo, compreso l’Occidente.

Tradizione – Sono chiamati Ahl al-Bayt, la gente della Casa. Anche loro seguono gli ahadith, ma accettano anche detti di discendenti del Profeta.

Clero – Ha un clero organizzato, preparato in università specifiche di scienze islamiche o nelle hawza (scuole teologiche). Per diventare shaykh c’è bisogno di una cerimonia, mentre, per salire nella gerarchia, il credente deve continuare a studiare, fino a diventare mullah e poi ayatollah. Nello sciismo l’ayatollah (ayatu-l-Lah, segno di Dio) è considerato il più alto dignitario del clero. È un titolo conferito a coloro che hanno ottenuto meriti, sia per proclamazione che per nomina da parte di un altro ayatollah. Per diventare ayatollah, oltre agli studi specifici e una grande conoscenza della religione, il fedele deve essere un discendente diretto di Muhammad.

Imam – L’imam è colui che deve guidare la religione in assenza del Profeta. Per i Duodecimani sono 12 gli imam, tutti discendenti di Muhammad, e dotati di infallibilità. Il 12° imam è l’imam occulto, il Mahdi. Quello dell’imamato è un concetto-chiave che distingue sciiti da sunniti.

Testi sacri – Come i sunniti, con un’estensione per gli ahadith.

Religione e politica – Gli sciiti hanno una tradizione di indipendenza dei leader religiosi rispetto a quelli politici. Tuttavia, lo stato è soggetto al clero, il quale monitora e decide se un governante è degno di governare e se rispetta le linee guida islamiche.

Scuole di giurisprudenza –  La maddhab sciita è la jafarita, ma ce ne sono molte altre, e ogni credente segue le scuole che ritiene meglio, senza imposizioni preordinate. Lo sciismo non accetta l’imitazione di giuristi morti, ma segue quelli in vita. Inoltre, i saggi/studiosi sciiti di scienze religiose divergono dai loro colleghi sunniti perché danno molto più peso all’esercizio della ragione e dell’intelletto. Per esempio, al posto del qiyas (una delle fonti del diritto musulmano, usul al-fiqh, che si basa sul principio di analogia per induzione, analizzando casi simili), gli sciiti usano lo ‘aql o ijtihad, «raziocinio individuale». Rappresenta lo sforzo di riflessione che gli ‘ulema’ (scienziati, studiosi di scienze islamiche) o i mufti (accademici islamici cui è riconosciuta la capacità di interpretare la legge, la shari‘a) intraprendono per interpretare le fonti della legge (usul al-fiqh) e formare opinioni legali qualificate, dando regole al fedele e informandolo sulla liceità o meno di un’azione.

Celebrante – Il predicatore sta in piedi di fronte alla comunità.

Moschee – Le moschee sciite sono decorate finemente, esteticamente accoglienti e attraenti. Si confronti una qualsiasi moschea dell’Arabia Saudita con quelle di Teheran o Isfahan, capolavori di bellezza e arte.

Pilastri del culto – Nello sciismo duodecimano ci sono 10 pilastri, chiamati «ausiliari della fede» (furuʿ al-din): 1) al-salah (in persiano, namaz); 2) sawm; 3) al-zakah (2,5% della ricchezza; non prevede donazioni in denaro, ma in oro, grano, animali, prodotti); 4) khums, una tassa annuale del 20% circa del reddito da donare agli imam e ai bisognosi; 5) hajj; 6) jihad, la lotta sulla via di Dio (ce ne sono di molte tipologie); 7) amr-bil-Marouf, incoraggiare, prendere parte a ciò che è buono; 8) nahi anil munkar, rigettare, proibire ciò che è male; 9) tawalla, esprimere l’amore per il bene (per gli amici di Dio, i suoi Profeti, coloro che desiderano e sostengono la giustizia, la verità); 10) tabarra, esprimere odio e rifiuto per il male (verso i nemici di Dio, dei Profeti e dell’Umanità, e verso gli oppressori).

Professione di fede (shahada) – Gli sciiti aggiungono «e ‘Ali ibn Abi Talib è amico di Dio».

Atteggiamento nella preghiera – Gli sciiti pregano con le mani in parallelo rispetto al corpo, davanti alle cosce. La preghiera è realizzata con l’ausilio di una pietra (turbah) su cui va a posarsi la fronte, nella genuflessione sopra il tappeto. Essa termina pronunciando tre volte il takbirAllahu akbar», Dio è il più grande).

Donne – Per gli sciiti, due donne sono considerate come modello per tutte, e hanno un ruolo particolarmente importante: Fatima Zahra (figlia del profeta Muhammad, moglie di ‘Ali e madre di Hasan e Hussayn) e Zaynab, la figlia di ‘Ali e Fatima. Nel mondo sciita è permesso il mut‘a: matrimonio a tempo tra un uomo e una donna non sposata. Il matrimonio, siglato attraverso un contratto e il pagamento di una somma di denaro a compensazione, può durare da qualche ora a anni. In realtà si tratta di un’istituzione pre-islamica, condannata dagli ayatollah iraniani e avversata dal sunnismo che la considera al pari della prostituzione. Il mut‘a viene riconosciuto come una sorta di salvacondotto legale per i rapporti sessuali non finalizzati alla procreazione (prevista all’interno del matrimonio permanente).

Velo islamico* –  Cambia soltanto il nome e la tipologia.

Feste –  Gli sciiti festeggiano anche: Mawild, l’anniversario della nascita del Profeta, della figlia Fatima e di tutti e 12 gli imam; l’Eid al-Ghadir, per ricordare la nomina di ‘Ali come successore di Muhammad; la morte di tutti gli imam, e in particolare Ashura, in cui viene ricordato il martirio di Hussayn a Karbala. Quaranta giorni dopo Ashura c’è la festa di ‘Arba‘iyn, a ricordo della visita dei suoi familiari al sepolcro.

Cibi e bevande – Non ci sono differenze con il sunnismo. •

 

IL VELO ISLAMICO (di Francesca Zamboni)

Hijāb, chādor e nikāb sono i diversi tipi di velo che contraddistinguono i paesi arabo-musulmani e che definiscono l’intensità del livello di segregazione e sottomissione della donna all’uomo.

L’hijāb rappresentava, in principio, il drappo di seta dietro cui si celava il califfo per tutelarsi dagli sguardi importuni dei propri congiunti.

Il termine ha acquistato, in seguito, significati diversi nelle differenti culture in cui si è andato a divulgare. Inizialmente il termine era estraneo all’Islam e solo con gli Omayadi, dinastia di califfi, è riuscito a diffondersi per poi espandersi in Egitto con i Fatimidi al fine di glorificare la figura del Sovrano.

Per i Sufi l’hijāb era invece simbolo di invulnerabilità e vittoria per l’uomo che lo avesse indossato, acquisendo poteri affini alle scienze occulte. Poi la sua diffusione nell’Islam e quindi la sua estensione a tutto l’universo femminile.

L’hijāb è conosciuto in Occidente anche col sinonimo chādor o chadar, dal persiano ciâdar (velo o mantello), tipico indumento usato dalle donne iraniane e da tenersi distinto dal clasico rūsāri, ovvero un copricapo o copritesta.

In origine si trattava di un velo indossato solo per i momenti di meditazione, praticamente una abito unico che avvolgeva tutto il corpo e che gradualmente divenne la veste utilizzata dalle donne dell’Iran per le loro passeggiate quotidiane.

Ancora oggi il chādor costituisce il vestito tradizionale, simile a un manto o a un foulard, che le donne devono, obbligatoriamente, indossare quando devono mostrarsi in pubblico. Il viso resta scoperto, mentre le spalle e il capo sono rigorosamente coperti, incorniciando l’ovale del volto.

Bisogna ovviamente sottolineare la differenza che sussisteva tra il chādor utilizzato nelle zone urbane e quello nelle zone rurali. Nel primo caso si trattava di una veste chiara o colorata che veniva abbinata a un foulard, a una camicia e a una gonna indossata sopra un paio di pantaloni (shalwaar); nel secondo caso il volto veniva avvolto in un velo che lasciava scoperti gli occhi.

Ancora oggi il chādor classico è rimasto l’indumento intramontabile delle donne delle zone rurali, mentre nelle aree urbane il posto è stato lasciato ad abiti più comodi e meno ingombranti. Il chādor, solitamente colorato o bianco per il giorno, veniva sostituito con uno nero per le cerimonie funebri.

Il nero, secondo l’ayatollah Khomeini, era il colore per eccellenza per questo tipo di velo, che le donne non sono costrette a vestire se non per attestare il proprio consenso al potere politico o la propria devozione nei confronti del velo stesso, inteso unicamente come indumento religioso.

In origine il chādor indicava lo status sociale di una donna, poiché il suo impiego serviva loro per distinguersi da quelle che non lo adoperavano, ovvero le prostitute e le serve.

I sovrani persiani si servivano di questo mezzo di identificazione così come era abituale tra i greci e i bizantini, le cui mogli non potevano mostrarsi in pubblico con il viso completamente scoperto. Una pratica pre-islamica, questa, che ha trovato il suo seguito sia nel chādor che nell’hijāb.

Il chādor fu abolito nel 1936 dallo Scià Reza Pahlavi, poiché non fedele al processo di modernizzazione che aveva intrapreso. Non solo, le donne che non avessero obbedito a tale proibizione sarebbero state arrestate; un provvedimento, questo, che non riscosse la simpatia di coloro che consideravano il velo una sorte di protezione, mentre per i liberali e coloro che si erano assimilati all’occidente, la decisione presa dallo Scià rappresentava un primo passo verso una maggiore considerazione della figura femminile e verso il riconoscimento dei loro diritti civili.

L’uso del velo è stato nuovamente introdotto nel 1980 attraverso una legge che ha irrigidito le norme del codice anche se con il passare degli anni l’imposizione dello chādor è divenuto meno predominante.

Il niqāb, altro tipo di velo appartenente alla tradizione islamica e utilizzato in Arabia Saudita, Iran e Marocco, copre, differenza dello chādor, tutto il corpo della donna, lasciando scoperti solo lo sguardo.

L’abito è composto da un fazzoletto, posto sotto gli occhi, al fine di coprire naso e bocca e da un pezzo di stoffa molto ampio, annodato dietro la nuca e poi lasciato scendere lungo le spalle affinché i capelli siano ben raccolti e nascosti.

Il niqāb è stato oggetto di molte diatribe, poiché si tratta di un abito che, non favorendo l’identificazione di una persona, potrebbe agevolare atti terroristici. Per questo motivo il niqāb ha creato molte polemiche. Tuttavia il suo uso è stato riconosciuto nei tribunali britannici e alcuni ospedali hanno addirittura provveduto a creare un camice niqāb per le pazienti musulmane.

L’apice della segregazione e sottomissione femminile è però rappresentato da due tipi di burqa: il primo, di colore blu, copre completamente il corpo e il volto della donna e qualche volta è provvisto di una piccola rete per favorire la visibilità, il secondo è un velo che copre interamente la testa, lasciando scoperti gli occhi.

Si tratta di una estremizzazione dei precetti coranici classici, poiché il Libro Sacro considera il velo lo strumento tramite cui le donne possono distinguersi dalle concubine. Quindi l’uso del velo presuppone la possibilità, per il testo sacro, di essere riconosciute.

Il burqa invece non permette l’identificazione e quindi la distinzione di uno stato sociale da un altro. Questo tipo di abito, obbligatorio in Afghanistan, è stato imposto dai Talebani, che nel 1996 stabilirono che le bambine dovevano indossare obbligatoriamente il chādor, mentre le donne il burqa.

Quindi ancora una volta la tradizione vittimizza la figura femminile, che spesso indossa il velo non per celebrare la propria cultura, ma per confermare la loro sottomissione alla figura maschile.

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