(Alessandro Aramu) – Alcuni osservatori l’avevano anticipato: il movimento palestinese Hamas non accetterà mai la tregua con Israele perché ciò che vuole, in fondo, è l’occupazione militare della Striscia di Gaza. A quel punto potrà dire di aver vinto. La sua evidente difficoltà politica può essere superata solo con la resistenza, ovvero con un’azione militare permanente che consente di ricompattare intorno alla sua dirigenza una parte del consenso perduto.
Il movimento, sempre secondo alcuni analisti, non rappresenta il suo popolo, non rispecchia quei 2 milioni di palestinesi della Striscia che da anni sono ostaggi sia di Israele che della politica miope del movimento islamista.
La concorrenza interna si è fatta più forte che mai: per la prima volta a Gaza sono apparse le bandiere dello Stato Islamico. Il proliferare dei gruppi salafiti e jihadisti rappresenta un pericolo per un movimento che ha fatto della guerra a Israele l’unica ragione di esistere. Le cellule estremiste si sono presentate anche in alcuni campi profughi palestinesi (come in quello di Ain El Helwi a Sidone, in Libano), a dimostrare che il richiamo dello Stato Islamico alla guerra santa non colpisce solo il nemico sionista ma un po’ tutti: dagli odiati sciiti ai nemici occidentali. E questo è solo l’inizio.
Per Hamas, dunque, ci sarebbe un solo modo per riaffermare la propria forza: continuare a lanciare missili contro il territorio dello Stato ebraico, provocare nuovi raid aerei sulla Striscia, sperare che i morti e i feriti tra i palestinesi crescano giorno dopo giorno e apparire come l’unica forza capace di difendere il proprio popolo contro le continue aggressioni di Tel Aviv. L’invasione israeliana sarebbe l’unico evento in grado di risollevare il prestigio dell’organizzazione. “Anche perché – ricorda il giornalista Gian Micalessin – se Israele deve fare i conti con un’opinione pubblica incapace d’accettare un conflitto prolungato e perdite elevate, Hamas punta su un alto numero di vittime palestinesi per invocare l’intervento internazionale”.
Dopo tutto l’organizzazione palestinese sa bene che il lancio di missili non scalfirà la forza di Israele e che l’entità sionista continuerà a esistere nonostante il jihad. Il no al cessate il fuoco proposto dall’Egitto sta tutto qui. Quel testo per Hamas è una resa, una sconfitta che decreta la sua fine.
Per questo, insieme alla fine dei bombardamenti, Hamas esige la revoca del blocco imposto a Gaza dal 2006, l’apertura del valico di frontiera di Rafah e il rilascio di tutti i prigionieri come previsto nell’accordo di scambio con il soldato israeliano Gilad Shalit. Condizioni non contemplate in un testo che anche l’Autorità Nazionale Palestinese ha approvato e giudicato di “buon senso”. Anche la proposta di aprire i posti di blocco per permettere il passaggio di persone e beni che potessero facilitare la sicurezza e la stabilità sul territorio, contenuta nel piano egiziano, è stata respinta dalla dirigenza di Hamas. Un punto, questo, che Israele ha dovuto ingoiare con grande fatica e che ha aperto una spaccatura tra i ministri del governo guidato da Netanyahu.
Israele, dal suo canto, ritiene Hamas non semplicemente un’organizzazione terroristica ma un “uno Stato, un governo che deve essere considerato responsabile delle sue azioni”. E contro uno Stato non si può che condurre una guerra, al pari di qualunque altro Stato dovesse attaccare Israele con i suoi missili. Definire una guerra ciò che sta accadendo in questi giorni è una forzatura, ma serve a capire lo stato d’animo di Israele e la logica delle sue azioni. È una logica di parte che però bisogna sforzarsi di capire, anche senza accettarla.
Si tratta di una forzatura perché Tel Aviv utilizza Hamas, colpendo Gaza e le sue basi nella Striscia, per scardinare il governo di unità palestinese che si rifiuta di riconoscere. L’obiettivo militare di Israele non è però il governo e lo stato palestinese, ma una sua componente, quella che a suo avviso costituisce una minaccia alla sicurezza dell’entità ebraica.
A livello internazionale, Hamas ha risentito più di chiunque altro della caduta dei Fratelli Musulmani egiziani, di cui il movimento palestinese è considerato a tutti gli effetti un’emanazione ideologica e politica. La fine di Morsi e l’avvento del generale Abdel Fattah al-Sisi, nemico giurato sia della Fratellanza che di Hamas, ha messo all’angolo una forza che ha persino avuto il coraggio (o la spudoratezza) di mettere i piedi in Siria per combattere contro Assad. La stessa Siria oggi, assiste compiaciuta al destino di un ex alleato schieratosi al fianco dei ribelli contro il suo presidente. E se il Qatar ha ridotto drasticamente i propri aiuti, anche l’Arabia Saudita guarda con indifferenza alla sorte di una formazione ritenuta troppo vicina a Teheran. La crisi siriana ha inoltre raffreddato gli storici rapporti con il partito sciita libanese Hezbollah.
Per mesi i vertici di Hamas hanno chiesto all’Egitto di al Sisi di riaprire i tunnel che trasportano le merci dentro e fuori la Striscia, per dare un po’ di sollievo all’economia di Gaza. La chiusura dei tunnel ha fatto lievitare i prezzi aumentando le sofferenze della popolazione civile.
Il no alla tregua è anche il no a un Paese, l’Egitto, di cui Hamas non si fida. Il Cairo sa bene che quei tunnel servono tanto alla popolazione quanto, ed è qui il vero problema, ai commercianti di morte che si sono arricchiti con il business delle armi. Tra quei commercianti, secondo l’Egitto, vanno annoverati anche i funzionari governativi che su quel traffico hanno costruito la loro fortuna (economica e politica). Chiudere quei tunnel significa anche indebolire l’ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedim Al-Qassam, il cui arsenale non è certo inesauribile.
Per Hamas la proposta di tregua egiziana è quindi una proposta essenzialmente israeliana perché pone sullo stesso piano gli occupanti e gli occupati, senza alcuna distinzione. Una proposta inaccettabile perché il mediatore, non credibile, non ha obbligato Tel Aviv a rispettare la tregua a tempo indeterminato e ha lasciato tutti i valichi e le porte chiuse. Per Hamas non c’è nessuna condanna sull’uso della forza contro i civili palestinesi, nessuna sanzione e nessuna conseguenza. L’accettazione della tregua significherebbe riportare la lancetta del tempo a qualche settimana fa, senza alcun vantaggio per il popolo palestinese che continuerebbe a essere oppresso dagli occupanti.
Ecco perché Hamas ha detto no alla tregua egiziana. Un no che per alcuni vale una vittoria e per altri la sua fine. Solo il tempo dirà se questa decisione è stata saggia o nefasta per il suo popolo.
Di una cosa bisogna essere certi: la questione palestinese non si può ridurre a Hamas. C’è un popolo che vive le sofferenze di un’occupazione militare di fronte all’assoluta inerzia della comunità internazionale. Se i diritti del popolo palestinese venissero difesi e le continue violazioni perpetrate da Israele nei suoi confronti fossero perseguite, non ci sarebbe niente di tutto questo. Il premier Netanyahu deve essere consapevole che la fine di Hamas, se ci dovesse essere, non significherebbe la fine della resistenza.
Dopo Hamas ci può essere qualcosa di peggiore per Israele. Quel qualcosa ha il volto del terrorismo jihadista, quello che colpisce nelle strade, nelle case e nei bus. In Israele sono in tanti ad averlo capito e più dei missili di Hamas ora temono le azioni del proprio governo.
Alessandro Aramu (1970). Giornalista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013) e Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014).