(Francesco Gori) – Dopo un quarto di secolo, l’Akp perde il controllo di Istanbul e Ankara. È questo il dato più significativo del voto amministrativo turco che, a una prima lettura dei risultati, clamorosi ma non del tutto inattesi, sancisce una sconfitta per il presidente Recep Tayyip Erdogan.
A Istanbul ha vinto Ekrem Imamoglu, candidato del Chp, principale formazione di opposizione che per le elezioni municipali ha stretto un’alleanza con il partito di centro destra Iyi. Ad Ankara il neo sindaco, anche lui del Chp, è Mansur Yavas. E proprio nella capitale i legali dell’Akp hanno annunciato di avere in preparazione diversi ricorsi, dove il successo del candidato dell’opposizione è stato netto, con quasi quattro punti di vantaggio sul fedelissimo del presidente, l’ex ministro Mehmet Ozhaseki, senza alcuna esperienza in ambito amministrativo.
Mansur Yavas ce l’ha fatta al terzo tentativo. Fu sconfitto nel 2009, quando correva per i nazionalisti dell’Mhp, all’epoca non alleato di Erdogan, e una seconda volta nel 2014, dopo essere passato nel partito repubblicano. Battuto nell’occasione dall’ex sindaco Akp, Melih Gokcek, Yavas denunciò brogli e irregolarità nel conteggio dei voti.
Difficile dire se il voto del 31 marzo rappresenti il risveglio di una coscienza politica contro Erdogan ma è senza dubbio un segnale importante di cambiamento perché era dal 2003 che il suo partito non perdeva le elezioni. L’elettorato ha lanciato un messaggio chiaro ai vertici dello Stato, il malumore crescente dei turchi per il deterioramento dell’economia nazionale non può rimanere inascoltato. La situazione impone, quindi, un cambio di rotta radicale nell’azione di governo.
Il fronte dell’opposizione fa quindi registrare per la prima volta, dopo 16 anni ininterrotti di sconfitte, una vittoria elettorale importante. Particolarmente significativa perché riguarda le due principali città turche. Una vittoria che, almeno apparentemente, avvicina la Turchia all’Unione europea visto che i due nuovi sindaci hanno posizioni molto meno dure rispetto al capo dello stato nei confronti di Bruxelles. Ma in verità la chiave di lettura è soltanto interna: dopo anni di crescita a ritmi sostenuti (una media del 5% all’anno tra il 2002 e il 2012) il paese oggi è bloccato.
Il Sultano è nudo ma certamente non è morto. E l’aria che si respira nel quartier generale di Erdogan non è di smobilitazione, semmai il contrario a sentire il primo commento di Ibrahim Kalin portavoce del presidente: “Qualcuno sta alimentando di nuovo la storia che è l’inizio della fine per Erdogan. Non impareranno mai. L’Akp ha ottenuto il 44,3% e la coalizione, con i nazionalisti del Mhp, il 51,6% dei voi. Erdogan ha un mandato fino al 2023. E fino ad allora non ci saranno elezioni. Smettetela di presentare i vostri auspici come fatti e analisi”.
Insomma, chi all’indomani della vittoria giurava sulla fine prossima di Erdogan e su un possibile ritorno al negoziato di adesione di Ankara deve rassegnarsi all’idea che la strada da fare è ancora molto lunga. Secondo Valeria Talbot, analista dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale), il voto amministrativo in Turchia non rappresenta l’inizio del tracollo di Erdogan ma soltanto una parentesi politica. Anche perché, sottolinea la studiosa, si tratta di una serie di elezioni locali e fino al 2023, come ha sottolineato anche il presidente, non ci saranno altre votazioni.
Il dato economico pesa come un macigno sull’esito del voto. La Turchia è entrata in recessione e la sua moneta ha subito una forte svalutazione nei confronti del dollaro. L’inflazione a fine 2018 era al 20% e il potere di acquisto delle famiglie è crollato. Il governo, a seguito dell’aumento dei prodotti alimentari, ha dovuto aprire a Istanbul e Ankara, proprio le due città dove l’Akp ha perso, dei punti vendita di ortaggi, la base della cucina turca, a prezzi scontati perché sovvenzionati dallo Stato.
Ecco perché l’esito delle municipali turche è tutto fuorché sorprendente. Forse anche per lo stesso Erdogan.