(Raimondo Schiavone) – Era il gennaio del 2015. L’inverno aveva avvolto il Medio Oriente in un manto bianco e gelido, un contrasto stridente con le fiamme della guerra che divoravano la regione. Quel giorno, il nostro autista Jalal, messo a disposizione da amici libanesi, ci aspettava al volante di una vettura inadatta alla tempesta che infuriava. Dovevamo attraversare la valle della Beqaa, una zona montuosa che separa Beirut da Damasco. Una strada carica di storia, ma quel giorno carica anche di neve, ghiaccio e pericoli.
La neve cadeva incessante, accumulandosi fino a mezzo metro, trasformando l’asfalto in un labirinto insidioso. Jalal, con la sua sicurezza ostentata, affrontava la strada con il piglio di chi conosce quei percorsi da una vita, ma era evidente che anche lui si stava misurando con una natura ostile. Rimasti bloccati in fila per ore, ci trovammo costretti a deviare dai percorsi battuti, avventurandoci tra i campi innevati per aggirare il traffico paralizzato. Più volte, scendemmo a spingere la macchina, consapevoli che non era un fuoristrada, non era fatta per quella sfida. Ogni metro conquistato sembrava una vittoria, ma la paura era sempre lì, tra la bufera e i precipizi, pronta a insinuarsi nei nostri pensieri.
Il confine: gelo, burocrazia e tensione
Dopo ore di lotta contro gli elementi, raggiungemmo il posto di frontiera tra Libano e Siria. Un caseggiato vecchio e freddo ci accolse, simile a una reliquia di un passato autoritario. Uomini e donne in fila, visi segnati dalla fatica, aspettavano il timbro d’ingresso, mentre soldati osservavano con sguardi stanchi e diffidenti. Anche noi ci accodammo, il respiro visibile nel gelo dell’aria, mentre Jalal, con il suo tesserino e quella parola magica che sembrava aprire tutte le porte, si occupava di spianarci il cammino.
Attraversammo il confine e iniziammo a scendere verso Damasco, lasciandoci alle spalle le montagne innevate ma non i pericoli. I blocchi militari erano frequenti, una presenza costante in quella Siria lacerata dal conflitto. Nel 2015, Hezbollah era ancora considerato dai siriani un alleato strategico, una delle poche forze capaci di contrastare i gruppi jihadisti che devastavano il paese. Il governo di Bashar al-Assad lottava per la sua stessa sopravvivenza, mentre i tagliagole di al-Nusra e dello Stato Islamico cercavano di trasformare la Siria in un califfato di orrore.
Damasco: una città sull’orlo del baratro
Arrivare a Damasco fu un sospiro di sollievo. La città, una delle più antiche e affascinanti del mondo, era però un luogo di contrasti strazianti. Interi quartieri erano ancora sotto il controllo dei jihadisti, zone dove la vita non aveva più alcun valore. Ma per noi, il viaggio era appena iniziato. Jalal ci consegnò nelle mani di un giovane militante, il nostro nuovo accompagnatore, un cameraman senza denti.
Lui era un angelo custode e una vittima della guerra. Ci raccontò che i suoi denti gli erano stati strappati durante la prigionia, una punizione inflitta dai terroristi. Eppure, il suo spirito era intatto. Continuava a documentare gli orrori del conflitto, rischiando la vita ogni giorno per raccontare una verità che il mondo sembrava ignorare.
Un testimone della resistenza
Quel giovane ci fornì tutto il materiale necessario, spingendosi là dove noi non potevamo andare. Ogni sera tornava con immagini strazianti, ma nei suoi occhi si leggeva qualcosa di più grande: la determinazione a difendere una patria in pericolo. Parlava con passione della sua lotta, non per vendetta, ma per amore del suo paese. Diceva che per lui la morte non era un problema, perché ciò che contava era fermare i terroristi, coloro che avevano devastato la sua terra e distrutto il suo sorriso.
Damasco: la città delle mille storie e del coraggio silenzioso
Furono giorni intensi, fatti di colloqui, incontri e sguardi profondi. Attraversammo uffici pubblici impregnati di una formalità austera, palazzi governativi che portavano sulle pareti il peso di decisioni storiche, studi televisivi nazionali dove si raccontava una verità diversa da quella del mondo esterno. Incontrammo famiglie provate dalla guerra, parroci cristiani che, nonostante il pericolo, erano rimasti a testimoniare la loro fede e a sostenere i loro fedeli.
In ogni momento, il nostro giovane accompagnatore era al nostro fianco. Ci conduceva con una calma sorprendente, nonostante il caos che imperversava attorno a noi. La sua prudenza era il nostro scudo; la sua sicurezza, una fonte di fiducia. Era sempre vigile, come se il suo sguardo potesse anticipare ogni rischio. Ci proteggeva senza farcelo pesare, trasformando ogni strada percorsa e ogni porta aperta in un luogo sicuro.
Un rifugio vuoto, una missione senza tregua
Le sere trovavano rifugio in un albergo dal fascino antico, ma svuotato della sua anima. Eravamo gli unici ospiti, immersi in un silenzio irreale. Le grandi stanze, arredate con eleganza decadente, sembravano un eco di un’epoca passata, lontana dalle esplosioni e dagli spari che scandivano le notti di Damasco. Lì, tra quelle mura, ci sentivamo al sicuro, ma solo grazie al nostro accompagnatore che, ogni sera, spariva per compiere la sua missione.
Mentre noi trovavamo riposo, lui si inoltrava nei punti di contatto con il nemico. Attraversava vicoli oscuri e quartieri inaccessibili, rischiando la vita per riportarci ciò che accadeva. Ogni notte tornava con filmati crudi, foto che raccontavano l’indicibile e testimonianze che illuminavano le ombre della città. Era un ponte tra due mondi: quello di una guerra brutale e quello di una speranza fragile.
La cronaca di un eroismo quotidiano
In quei filmati c’era la realtà che non potevamo vedere con i nostri occhi: edifici ridotti in macerie, volti segnati dalla paura, uomini e donne che resistevano contro ogni logica. Il nostro accompagnatore non cercava riconoscimenti. Ogni suo gesto parlava di una missione più grande: documentare la verità, combattere con l’unica arma che gli era rimasta, la sua fotocamera.
Quelle sere, nel silenzio dell’albergo, mentre rivedevamo le immagini che ci consegnava, capivamo l’immensità del suo coraggio. Lui non era solo il nostro angelo custode, ma un narratore della guerra, un testimone di un’umanità che si rifiutava di cedere al buio. Il suo sacrificio e la sua dedizione sono rimasti impressi in noi, così come l’eco di quelle notti a Damasco, in un albergo vuoto che proteggeva le nostre paure e custodiva le sue imprese silenziose.
Quante macchine abbiamo cambiato in quei giorni, ogni volta per sfuggire ai pericoli e rimanere invisibili. La sua protezione ci permise di documentare una realtà che avrebbe meritato il sostegno del mondo. Ma, come scoprii anni dopo, quel giovane non aveva compreso fino in fondo che l’Occidente, il nostro Occidente, non avrebbe mai sostenuto veramente la causa siriana. Alla fine, l’ipocrisia e i giochi geopolitici avrebbero consegnato quella terra agli jihadisti, tradendo la speranza di uomini come lui.
Ripenso spesso a quel ragazzo senza denti. Chissà dove sarà oggi, in una Siria ancora ferita, forse segnato dalla sconfitta. Ma nella mia memoria rimangono i suoi occhi, pieni di bontà, coraggio e fede in un ideale più grande. Lui è il simbolo di una resistenza che merita di essere ricordata.
Foto: Valle della Bekaa, verso il confine con la Siria – gennaio, 2015