(Simona Planu) – Strano modo di celebrare il lavoro. In un’ Italia dove la contrattazione sindacale è un’utopia e lo statuto dei lavoratori è carta straccia, il sistema auspicato è il protezionismo e la merce da tutelare sono le risorse umane. La demagogia imperversa e il quadro che emerge è devastante: la coscienza civile è soffocata da chi urla slogan razzisti a protezione del lavoro e della sicurezza personale. Le voci si alzano ma, di fatto, non conoscono le logiche dell’internazionalizzazione e internazionalismo, non si attivano a tutela del lavoro e parlano in maniera controproducente di opportunità e sviluppo.
Le istanze che dicono di voler tutelare sembrano essere quelle che uccidono la dignità del lavoro e i lavoratori stessi.
La notizia dell’uccisione del cooperante Giovanni Lo Porto arriva in un momento in cui queste voci si intrecciano alla sofferenza di un mondo che è a soli pochi passi da qui. Un momento in cui si parla di sicurezza e terrorismo con un linguaggio carico di fascismo e razzismo.
Giovanni Lo Porto era uno di quelli che non credono nei confini del lavoro. I confini segnati da chi mette e toglie i paletti a seconda della convenienza. Per intenderci, quelli che se vuoi stare al sicuro devi startene a casa tua (sempre che non ci siano gli immigrati a rubarti il lavoro), e ancora “si devono aiutare a casa loro” . Chissà poi perché, specializzarsi per un lavoro che ti fa stare dalla parte della giustizia sociale, dei diritti e dell’equità deve per forza chiamarsi aiutare.
Le parole che avvicinano Lo Porto alla lotta al terrorismo, all’alleanza strategica tra Italia e Usa lasciano l’amaro in bocca. In un’aula di parlamento vergognosamente semivuota il ministro Gentiloni parla di ideali e valori comuni, ma non chiede giustizia e verità. Basta un clic per sapere che l’azionariato della finmeccanica è composto al 30,2% dal ministero dell’economia e della finanza. Un governo che investe in armamenti ha già scelto su quali valori è fondato. E non sono sicuramente i valori di chi muore sotto le bombe di un drone americano che, dicono, dovrebbe garantire la sicurezza globale.
Per rendere omaggio e giustizia a questo lavoratore senza confini, forse si sarebbe dovuto parlare di servitù militari, servitù politiche e di pensiero che ci accompagnano da troppi anni. Abbiamo svilito la nostra storia assoggettandoci a una logica secondo cui la libertà è un regalo. Forse è per questo che non capiamo la guerra, non capiamo la lotta per l’autodeterminazione e la resistenza. Non capiamo chi intraprende un viaggio disperato. Quella stessa logica sostiene il lavoro prodotto da chi gioca alla guerra, ma si dimentica dei lavoratori, della loro salute e della loro dignità. La dinamica guerra, sicurezza e libertà genera un discorso provinciale e razzista che impone di voltarsi dall’altra parte, e non ammettere che in questo risiko globale siamo tutti coinvolti.
Le tesi di chi in questi giorni si proclama “paladino” dei lavoratori non convincono e anzi disturbano.
Non si ammette che, per la legge della domanda e offerta di lavoro, in un confronto con gli immigrati, spesso non siamo nemmeno concorrenziali e non si tratta di costo del lavoro.
Non ci sono accuse contro i caporali che il lavoro degli immigrati lo sfruttano.
In quest’enfasi di tutela, quando si parla di accoglienza ai migranti non si dice che c’è un esercito disarmato di persone che hanno studiato, sono professionalizzati e hanno passato la loro vita a incontrare l’altro, ma che stentano a trovare un lavoro perché non rientrano nel meccanismo corrotto del guadagno sulla sofferenza.
E non si spiega perché l’uccisione di un cittadino italiano, avvenuta nell’esercizio del suo mestiere, se è fatta per mano degli americani non fa altrettanto male.
C’è un modo più sano di celebrare questo primo maggio. Stando dalla parte di chi dice no a un lavoro gratis all’EXPO. Di chi un lavoro in un’azienda che produce armamenti, nemmeno lo cerca. Buona festa del lavoro a chi per il lavoro è morto e a chi non se lo dimentica. A chi è morto perché qualcuno non ha fatto il suo lavoro con coscienza piegandosi al profitto senza responsabilità. A chi crede che i diritti non sono esclusivi e che il pregiudizio è solo figlio dell’ignoranza.
Simona Planu. Laureata in Relazioni Internazionali all’Università di Cagliari e specializzata in Aiuto Umanitario e Cooperazione internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Nelle sue missioni in Bolivia e nella Striscia di Gaza si è occupata di Protezione e Diritti Umani.