(Alberto Negri- Il Sole 24Ore) – Il destino di Raqqa, capitale del Califfato bombardata la notte scorsa dall’aviazione francese, racconta una storia emblematica della guerra siriana che racchiude prima la paura per la repressione esercitata dalle milizie degli shabbya del regime di Bashar Assad, poi le speranze sollevate dall’avanzata dei ribelli e infine il cupo terrore imposto dai jihadisti di Abu Baqr Al Baghdadi. Ma la sorte di Raqqa, della Siria e dell’Iraq, ci racconta anche quanto sarà complicato sradicare i jihadisti, sempre che si trovi l’accordo internazionale per farlo.
Il 6 marzo del 2013 Raqqa era un città in festa che accoglieva gli insorti sventolando bandiere. Per le forze fedeli ad Assad era stata un sconfitta dura e umiliante: questa città di 200mila abitanti, a 160 chilometri a Est di Aleppo, era il primo capoluogo regionale a cadere in mano ai ribelli con un’offensiva che aveva visto schierate fianco a fianco le milizie dell’Esercito libero siriano (Els) e dei gruppi jihadisti e salafiti di Jabhat an Nusra e Ahrar ash Sham.
La gioia per la liberazione della città si trasformò in timore, quando le brigate dell’Els vennero cacciate dalla città dai gruppi salafiti, fedeli a una versione radicale e fondamentalista dell’Islam che risale nella tradizione ai primi compagni del Profeta Maometto. I salafiti di Jabhat Al Nusra, affiliati ad Al Qaeda, pensavano di avere in pugno la situazione: si erano liberati dell’Els, formazione sostenuta anche dalla Turchia, che includeva elementi di provenienza diversa, dai disertori dell’esercito di Assad ai laici agli islamisti. L’Els veniva presentato alle conferenze internazionali come una sorta di braccio armato dell’opposizione moderata, allora era ben insediato ai confini con la Turchia. Controllava alcuni valichi di frontiera ma stava già perdendo seguaci a favore dei gruppi più estremisti. In realtà i moderati non hanno mai controllato quasi nulla di quanto accadeva sul campo, tanto meno i cosiddetti “leader” siriani che si facevano pagare i conti dagli occidentali in hotel a cinque stelle.
Anche la conquista di Raqqa dei salafiti si era rivelata un’illusione. Bivaccavano con le bandoliere a tracolla nelle caserme abbandonate dai militari del regime e avevano issato le bandiere nere del monoteismo di Al Qaeda sulle antiche rovine della porta di Baghdad e sulla Qalat di Jabar, costruita dai selgiuchidi sulla sponda sinistra dell’Eufrate, fortificazione fascinosa anche se meno imponente di quella di Aleppo.
Raqqa aveva una vecchia storia, densa di significato per il mondo musulmano, molto più di quanto apparisse dai palazzi della sua anonima periferia.
Città ellenistica, romana e bizantina, era stata conquistata assieme a tutta la Siria nel settimo secolo del secondo califfo Omar.
Ma la cosa più importante agli occhi degli islamiti è che nel periodo abbaside diventò per 13 anni, dal 796 all’809, la capitale di fatto del Califfato di Harun al-Rashid, l’ispiratore delle “Mille e una Notte”, che da Raqqa lanciava le sue offensive militari il nemico cristiano bizantino.
In una posizione strategica per tagliare la strada ai militari di Assad in direzione di Aleppo, Raqqa faceva gola non soltanto ai salafiti che per altro avevano già imposto una versione crudele della legge islamica di stampo medioevale, con pubbliche decapitazioni.
Era già cominciata l’avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante che in poco tempo cacciò i salafiti di Jabhat Al Nusra consolidando il suo dominio sulla città con la forza e l’intimidazione, attaccando, catturando e mandando a morte sia i combattenti dell’opposizione sia i manifestanti pacifici. Alcuni video dell’epoca online mostrano le decapitazioni e i miliziani che sparano sulla folla mentre si ribella ai jihadisti.
Fu in questa Raqqa che arrivò nel luglio del 2013 il gesuita italiano Padre Paolo dall’Oglio. Secondo alcuni attivisti si era recato nella sede dell’Isis per tentare di incontrare il leader Abu Baqr Baghdadi. L’incontro aveva lo scopo di chiedere una tregua con le milizie curde e avere informazioni sulla sorte di alcuni sacerdoti e giornalisti rapiti. E fu a Raqqa che di lui si persero le ultime tracce certe.
Nel gennaio del 2014 l’Isis aveva sottomesso completamente Raqqa trasformando la Siria e l’Iraq in un unico campo di battaglia, da lì a pochi mesi avrebbe conquistato la città irachena Mosul, dove Al Baghadi proclamò il Califfato, per poi impadronirsi dei pozzi petroliferi siriani di Dayr el Zhor. Colui che guida il Califfato, un iracheno di Samarra allievo del qaedista Abu Musab Zarqawi, era riuscito a sfruttare il caos siriano e iracheno unendo le forze jihadiste a quelle degli ex ufficiali e seguaci del Baath di Saddam Hussein. Un’avanzata che aveva saputo sfruttare le cause della rivolta della minoranza sunnita in Iraq contro gli sciiti e quella della maggioranza sunnita siriana contro il regime alauita di Assad.
Di Raqqa Al Baghdadi aveva fatto la sua capitale governata nella morsa della sharia, a colpi di frusta e di sermoni applicati dalla Hisba, la polizia religiosa, ma anche con la distribuzione gratuita di cibo e bevande alla popolazione. Un rudimentale welfare state che insieme a saccheggi, estorsioni e rapimenti, ha imposto la zakat, la tassa religiosa del 10% sui redditi. Da qui Abu Baqr Baghdadi avrebbe ordinato la strage di Parigi, spegnendo le luci della Tour Eiffel ma di conseguenza anche quelle di una capitale che dopo Harun Rashid, il vero Califfo delle Mille e una Notte, era piombata per secoli ai margini della storia.