INCHIESTA/ Il jihadismo nella società delle reti


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di Gian Nicola Marras*

Media responsabili?

Le pratiche criminali del terrorismo avvengono su uno scenario internazionale e rappresentano  un ulteriore segnale delle sempre maggiori difficoltà da parte degli Stati-nazione nel contenere queste minacce. Dunque, se con l’accelerazione dei flussi e delle comunicazioni, tutte le regioni del mondo sono più vicine l’una con l’altra, tale vicinanza è al contempo portatrice di nuove e straordinarie opportunità positive, come anche nuovi rischi e minacce.

La globalizzazione per via della sua natura complessa e multidimensionale, non permette esami parziali o isolati di fattori geopolitici visti nella loro unicità. Bisogna considerare la complessità e la varietà delle interazioni e correlazioni reciproche tra svariati attori e contesti geopolitici.

Con l’accentuazione delle interdipendenze, la porosità crescente delle frontiere, il sorgere di forze  terroristiche transnazionali endemiche in grado di arruolare adepti nelle carceri e nei sobborghi delle grandi metropoli, il fenomeno dell’urbanizzazione diviene sempre più incontrollabile.

Il terrorismo jihadista sfrutta le possibilità offerte dal Web 2.0 per fare proselitismo e reclutamento nelle grandi metropoli dell’Occidente. L’agire terroristico nell’età della globalizzazione trova nelle tecnologie ubiquitarie, social network, gli strumenti in grado di agevolare la riduzione dei costi di comunicazione e coordinamento, e perpetuare quindi tremendi massacri. Nonostante tale fenomeno sia difficile da controllare e monitorare, la geopolitica e la governance degli Stati e delle forze di intelligence dimostrano la loro importanza centrale.

In ambito strategico, si affermano nuovi approcci di warfare, che prevedono il ricorso a forme sofisticate di softwar che consistono nell’applicazione di tecniche psicologiche, propagandistiche di massa dette PsyOps (Psychological Operations), sono oggi attuabili grazie alle più recenti evoluzioni delle ICT: Tv e social network rappresentano quindi gli spazi virtuali di influenza e manipolazione per eccellenza. I video di “ultimo saluto” aventi come protagonisti attivisti siriani, sono apparsi in rete negli ultimi giorni di assedio di Aleppo, si tratta di contenuti multimediali che al contempo sono prodotti e producono laceranti divisioni nell’interpretazione dei fatti, creando divisioni e dissensi anche in Occidente. Ma non si tratta di contenuti neutri e neutrali, bensì video prodotti da attivisti, cittadini siriani che scelgono di schierarsi con una fazione o con l’altra del conflitto.

Guerra

L’Occidente scopre il terrorismo, solo dopo che le sue élites del potere hanno contribuito a crearlo e ad utilizzarlo nelle svariate guerre per procura che oramai da decenni si susseguono senza sosta insanguinando il Medio Oriente. Oggi anche grazie all’ausilio dei social media, gli individui sono nella posizione di potersi auto-interrogare sul senso e sulle modalità dei rapporti con gli altri popoli per promuovere la pace.

Ma questo non accade, o accade in maniera marginale. Per i media mainstream occidentali non esiste il ricordo e il cordoglio per i morti extra-occidentali, non esistono “Je suis Baghdad”, “Je Suis Damasco”, “Je Suis Nairobi”, “Je suis Tripoli”,”Je suis Kabul”, “Je suis Aleppo” città sulle quali oltre alle sciagure della guerra e del terrorismo, si aggiunge quella della manipolazione mediatica.

Per capire la guerra bisogna studiare e conoscere la storia. Nell’insegnamento di Carl Schmitt, la distinzione tra nemico esterno e nemico interno allo Stato, deriva da logiche spaziali: la distinzione tra nemico (forestiero ostile) e criminale (chi mina l’integrità dello Stato), ovvero fra intervento militare (aggressione esterna) ed intervento poliziesco (repressione interna), consiste nella distinzione fra straniero (forestiero ostile) e cittadino (dissidente allo Stato)[1].

Contestualizzazioni

Che piaccia o no, nell’ottica di questa guerra siriana, il governo (o regime, per i critici), l’autorità di Bashar al-Assad corrisponde all’autorità dello Stato legittimo.

Oggi il cordoglio per i cittadini di Aleppo, diviene per i media mainstream occidentali un’occasione per accusare l’esercito di Damasco e la Federazione Russa dei massacri. Comunque si guardino questi fatti, sono Damasco e la Russia i due principali attori di potere (principali, ma non gli unici)  che nel contesto di questa guerra hanno concretamente operato per liberare una nazione dal giogo del jihadismo di marca salafita-wahabita.

La vicinanza morale della cosiddetta “comunità internazionale” verso la popolazione colpita di cui parlano i leader politici occidentali, semplicemente non esiste.

La guerra e la violenza continuano ad essere sterilizzate, circoscritte a specifici spazi geografici giudicati dalle élites occidentali come a-settici contesti del mondo all’interno dei quali la guerra è possibile. La propaganda mediatica generalista anche nei media digitali, riconduce al silenzio i nuovi sciagurati massacri che vengono commessi ogni giorno.

Nell’ottica di questa riflessione non posso non evidenziare le imbarazzanti contraddizioni insite nelle fallimentari strategie geopolitiche attuate negli ultimi decenni dalle élites del potere per affrontare i grandi temi internazionali di un mondo globale in costante mutamento.

Topic-off-topic

Dinanzi al proliferare degli analisti geopolitici facebookiani, mi sembra opportuno, cercando di sospendere ogni giudizio personale, porre tre semplici domande, alle quali in nota è stato aggiunto un suggerimento di lettura, ognuno dei quali corrispondente ad un tentativo di risposta, necessariamente parziale e mai generale.

Chi ha trasformato il Medio Oriente in una polveriera?[2]

Chi ha scatenato e continua scatenare le cosiddette “guerre per procura”?[3]

Chi ha teorizzato e realizzato il principio dell’Arco di Crisi?[4]

La pericolosa valenza aggregatrice della paura cattura l’attenzione dei cittadini occidentali messi in allerta dalle sirene allarmistiche dei media mainstream, che snocciolano soluzioni sbrigative e per questo approssimative, dove immigrazione e terrorismo vengono sovrapposti e concepiti l’uno come concausa dell’altro. Un’operazione di disorientamento mediatico dettata da interessi di gruppi particolari, e che presenta il forte rischio che tutto questo possa sfociare in odio etnico e in xenofobia, fenomeni che sul lungo termine favoriscono forme di aggregazione politica basate sulla disintegrazione sociale e non sull’integrazione intercomunitaria.

La guerra nel mondo globale tende ad assumere nuove forme. Si tratta di una guerra despazializzata e asimmetrica, si tratta di una guerra glocale in quanto l’episodio terroristico può manifestarsi ovunque, nell’Occidente come nei paesi nel quale il terrorismo trova il suo campo base logistico.[5] Per queste ragioni la guerra nell’età delle reti digitali tende ad andare oltre e fuggire da ogni regola e ogni limitazione del diritto internazionale.[6]

Al-Qaida e Daesh in qualche modo sono prodotti non tanto dal nomadismo, dall’intersecarsi delle civiltà e delle culture, quanto dagli sciagurati errori strategici commessi dalle élites del potere transnazionale che sfruttando impropriamente le possibilità logistiche offerte dalle reti della società ipertecnologica e globalizzata hanno addestrato, finanziato e armato gruppi terroristici che oggi rappresentano una minaccia per la pace mondiale.

[1]             Galli Carlo, Genealogia della politica. Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno. Il Mulino, Bologna, 1996. p. 884

[2]             Negri Alberto. http://www.globalist.it/world/articolo/82239/oltre-trent-039-anni-di-distruzione-del-medio-oriente.html

[3]             Negri Alberto. http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-03-16/la-guerra-che-nessuno-potra-mai-vincere-071907.shtml?uuid=ACRVyzoC

[4]             Brzezinski Zbigniew, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana. Longanesi, Milano, 1998.

[5]             Qiao Liang- Wang Xiangsui, L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2001.

[6]             Galli Carlo, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari, 2002.

 

* Cagliaritano, 29 anni spesi nell’indagine della società e della socialità sarda, italiana e internazionale. Appassionato di calcio come fenomeno antropologico. Promotore di un dibattito critico come mezzo di inclusione sociale

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