L’attacco dell’Iran a Israele: i limiti di una guerra temuta e non voluta


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(BRUNO SCAPINI) – Non c’è dubbio. La pioggia di droni e missili lanciati dall’Iran nella notte del 13 aprile scorso, in destinazione del territorio israeliano, non manca di suscitare le peggiori e più fosche inquietudini sui futuri sviluppi della situazione in Medio Oriente. Una situazione che, fatta di varie componenti, comprende al suo interno, oltre alla prevalente crisi israelo-palestinese, una serie di tensioni regionali tra cui quella da tempo esistente tra Gerusalemme e Teheran di indubbia particolare evidenza.

Ed è a questo riguardo che l’attacco iraniano, assumerebbe un rilievo di massima criticità. Una “escalation” dello scontro, infatti, rischierebbe concretamente di elevare il rischio di guerra diretta tra Gerusalemme e Teheran; una guerra che non si limiterebbe ai due Paesi, ma che si estenderebbe facilmente ad altri Stati infuocando tutto il Medio Oriente per via dell’intreccio di alleanze esistenti nella regione. Tuttavia, in contro-tendenza alla tradizionale tentazione dei media di esaltare l’entità dei fatti per conseguire volutamente un più alto indice di emotività, varrebbe la pena ricondurre quest’ultimo esercizio operato dall’Iran nel quadro di quell’azione preannunciata dalla Teheran ufficiale a seguito del recente attacco portato da Israele alla sede diplomatica iraniana a Damasco.

E sul punto un aspetto andrebbe tenuto chiaramente in evidenza: l’attacco iraniano non deve essere valutato come un’aggressione premeditata allo Stato di Israele, bensì come una reazione di Teheran che, condotta a titolo di rappresaglia, troverebbe una propria legittimità sostanziale sul piano giuridico nel preesistente illecito commesso da Israele in Siria.

Una reazione, dunque, che escluderebbe l’intenzione di parte iraniana di aprire una guerra a pieno regime con Israele, e che si giustificherebbe per fondatezza, non solo in virtù di una norma consuetudinaria di diritto internazionale, ma anche per via del suo riconoscimento operato dalla stessa Carta dell’ONU (art. 51) quale legittima condotta riconducibile alla più ampia previsione del diritto di auto-tutela spettante a tutti gli Stati.

La vicenda dello scontro tra Iran e Israele sembrerebbe a questo punto appianarsi alla luce dell’equilibrio ora raggiunto tra atti contrapposti delle parti.  Purtuttavia, il pericolo di una “escalation” nello scontro non sembrerebbe ancora escludersi del tutto.

“Risponderemo!” dichiara Netanyahu dal canto suo minacciando ulteriori ritorsioni, mentre, a sostegno di una tale eventualità, interverrebbe l’annuncio dato dagli stessi Stati Uniti di “fornire in ogni caso protezione ad Israele” nonostante però Washington dichiari di voler declinare ogni opzione suscettibile di portare ad una guerra diretta con l’Iran. Una posizione forse ambigua quella della Casa Bianca? Probabile. Ma certamente rivela l’inquietudine di Washington di fronte ad uno scenario capace di ampliarsi pericolosamente proprio a ridosso delle elezioni per la nuova Presidenza degli Stati Uniti.

Che per Teheran si intenda chiudere il caso con questa rappresaglia  – peraltro circoscritta per luoghi colpiti e limitata per effetti collaterali – sembrerebbe evidente. Lo avrebbe dichiarato del resto lo stesso Ambasciatore iraniano all’ONU. Che non lo sia invece da parte israeliana è per contro supponibile. Tuttavia, una cosa sarebbe comunque certa al momento: solo Israele potrebbe innescare con ulteriori sue reazioni l’”escalation” dello scontro. Ma a questo punto la responsabilità della decisione per portare il conflitto ad ulteriori livelli di gravità ricadrebbe unicamente ed esclusivamente sul Governo di Netanyahu messo all’angolo dalla calcolata mossa di Teheran. Un successo diplomatico, dunque, per l’Iran. Rischiare, infatti, sul rimbalzo tra le parti in causa della responsabilità per la decisione finale su un evento temuto e, in realtà, neanche voluto, è in fondo una delle tecniche della moderna “diplomazia della violenza”.

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