(Alessandro Aramu) – L’ultimo massacro dello Stato Islamico in un villaggio vicino a Deir Ezzor, nell’est della Siria, ha riproposto con forza alcune delle questioni che hanno caratterizzato il dibattito di questi mesi sul futuro di un paese piegato da una guerra che ha provocato quasi 300 mila morti e milioni di sfollati. Tutte le ricette della diplomazia internazionale sembrano frantumarsi di fronte a un’amara realtà: i bombardamenti della coalizione a guida statunitense sono inefficaci a contrastare un fenomeno terroristico che si è autoproclamato entità statuale. Sono inefficaci perchè, come osservano molti analisti militari, la coalizione non sta colpendo realmente gli obiettivi in grado di indebolire i terroristi dell’IS. Tutto ciò apre serie di interrogativi sulla reale volontà di Barack Obama di porre fine a una guerra che sta per entrare nel suo sesto anno di vita.
L’obiettivo, per la Casa Bianca, è lo stesso: l’uscita di scena del presidente Bashar Al Assad, in quella sorta di continuazone di Primavera Araba che il presidente Usa vorrebbe applicare ossessivamente anche in Siria. Il metodo è collaudato: prima bisogna abbattere il dittatore di turno e, successivamente, trovare qualcuno che possa sostituirlo. Un’operazione simile è fallita in Libia (dove adesso avanza l’IS e il neo governo sembra traballare sulle sue fragilità) e avrebbe conseguenze ancora più tragiche in Siria.
Dunque, c’è solo una soluzione per evitare che il paese arabo tracolli definitivamente: sostenere un presidente che combatte realmente il terrorismo (e non è un caso che il maggior numero dei morti in Siria non sia rappresentato dai civili ma dagli uomini dell’esercito regolare e dalle forze che lo supportano) e, nel contempo, rafforzare l’azione militare di quei paesi che combattono seriamente i gruppi jihadisti, che non si esauriscono certamente con l’IS. Che piaccia o meno ai governi e agli osservatori occidentali, l’indebolimento degli uomini del Califfato, che stanno perdendo terreno ovunque, è arrivato con l’ingresso in campo della Russia di Putin.
I bombardamenti dell’aviazione di Mosca sono efficaci perchè prendono di mira le postazioni dei terroristi e i loro interessi, come il traffico del petrolio verso la Turchia. Sono efficaci perchè colpiscono dove gli altri non hanno avuto coraggio di arrivare, nell’ipocrita convinzione che la maggior parte dei combattenti anti Assad fosse moderata e laica. Buona parte dell’opposizione armata in Siria non è molto diversa dallo Stato Islamico: molte sigle, infatti, condividono la stessa matrice radicale. Molti gruppi, sostenuti dagli Stati Uniti in funzione anti Assad, condividono con l’IS anche l’idea di instaurare in Siria un emirato con l’applicazione della sharia. Questi gruppi sono stati finanziati e armati nel silenzio generale da quei governi che, sulla carta e con una buona dose di ipocrisia, vorrebberlo combatterli.
Se dovesse cadere Assad, questi gruppi sarebbero legittimati ad avere un ruolo nel futuro del paese. Sarebbe una disgrazia per tutti, musulmani e non. Ecco perchè la strage a Deir Ezzor, per la quale i media italiani hanno fatto molto meno rumore di Madaya, impone alla diplomazia internazionale una seria riflessione sull’opportunità di voler chiedere a tutti i costi un passo indietro all’attuale presidente siriano. Questo vale anche per il governo Renzi e, in particolare, per il ministro degli Affari esteri Gentiloni che sembra il portabanidera di istanze altrui. L’Italia, invece, potrebbe giocare un ruolo decisivo in questa partita. Il legame tra i due paesi è sempre stato forte e Roma è stata vista da Damasco come un interlocutore autorevole e indipendente. Quei tempi, purtroppo, sono passati e l’Italia conta ben poco nella regione. Un peso, relativo, lo conserva ancora in Libia ma per il resto la nostra diplomazia estera ha davvero perso buona parte della considerazione che aveva un tempo.
Ritornando ad Assad, bisogna ricordare che nel 2014 ha rivinto le presidenziali, fissando il termine di altri 7 anni per guidare il paese. Si è trattato di elezioni non legittimate dall’Occidente che ha disconosciuto l’affluenza record del 73,42% degli aventi diritto. Con questo atteggiamento, Stati Uniti ed Europa hanno dato forza ai numerosi attacchi contro le sedi elettorali da parte dei cosiddetti ribelli, buona parte dei quali appartenevano a gruppi radicali.
Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, non credeva che la Siria fosse in grado di organizzare una tornata elettorale in piena guerra. Gli osservatori presenti sul campo, come ad esempio il Centro Italo Arabo Assadakah, hanno certificato il regolare svolgimento del voto. La comunità internazionale si è spaccata: l’Occidente (con il sostegno delle Monarchie del Golfo) ha parlato di voto truffa, altri, come la Russia e l’Iran, ne hanno riconosciuto la validità.
La teoria della democrazia da esportare, buona per tutte le stagioni, ha dunque riproposto il solito tema dei brogli e della violenza esercitata nei seggi pur di costringere i siriani a sostenere il “dittatore”. Si è applicato in Siria ciò che non si è voluto vedere in Turchia, dove Erdogan ha effettivamente truccato il voto esercitando a tutti livelli la violenza nei confronti dei suoi oppositori e degli elettori. Nessuno dei suoi alleati, però, ha avuto qualcosa da ridire. E’ evidente che non si vuole esportare la democrazia ma solo una guerra per procura che ha la testa altrove e il sangue in Siria.
Il complotto, appena abbozzato, è fallito nel 2014 e le elezioni che gli Stati Uniti vorrebbero imbandire senza Assad in un prossimo futuro seguono la linea di quanto è accaduto in molti paesi dell’America Latina dove Washington, dopo aver sostenuto numerosi colpi di Stato, ha pilotato finte elezioni democratiche per far insediare presidenti fantoccio corrotti e al soldo della Cia. C’è un’ampia letteratura, basta avere solo la costanza di leggerla. Un’ampia letteratura che parte dal Cile e arriva al Nicaragua, per passare ad altre nazioni che hanno avuto la sventura di avere un capo dello Stato guidato dagli Stati Uniti. In Siria, anche grazie alla Russia di Putin, questo progetto è fallito e se anche non dovesse esserci un futuro per Assad, la storia dovrà essere scritta a Damasco e non alla Casa Bianca che dalla fine della seconda guerra in poi ha rappresentato la vera minaccia alla sicurezza mondiale.
Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria(Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia – Centro Italo Arabo e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.