Il pensiero politico sciita (prima parte)


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di Hujjatul-Islam Ahmad Vaezi

Cos’è un governo religioso?

L’influenza della religione sulla politica non è un fenomeno presente solamente nel mondo islamico. Sarebbe comunque impossibile per un qualsiasi studioso della politica ignorare il ruolo che l’Islam ha nella vita pubblica dei Musulmani. Il notevole impatto di questa religione sulla politica dei paesi Musulmani può essere considerato come un effetto del suo forte e profondo radicamento nelle rispettive popolazioni. Leaman scrive:

“dagli studi degli esperti di filosofia politica islamica si può spesso dedurre che questa abbia un ruolo estremamente conservativo. Anche i cosiddetti modernizzatori hanno in mente qualche sorta di teocrazia, uno Stato in cui la religione gioca un ruolo predominante.” (1)

E’ ovvio che ogni sistema legale richieda l’esistenza di uno Stato e di un apparato di governo che lo attuino e gli diano forza ed autorità. Di conseguenza, per essere applicata, la Legge Islamica (Shari’a) abbisogna anch’essa di uno Stato. Ci si deve comunque chiedere se ogni dottrina del pensiero politico islamico abbia effettivamente per fine lo stabilirsi di uno “Stato Islamico”. I due fattori citati, che l’Islam sia un aspetto vitale e necessario della cultura dei popoli musulmani, e che la Shari’a richieda potere e autorità politica al fine di essere applicata, ci inducono a pensare che tutti i sistemi politici affermatisi nel corso della storia del mondo islamico siano stati governi religiosi.

Sebbene, com’é ovvio, sia alquanto difficile definire che cosa sia un “governo religioso”, è essenziale distinguere tra i vari livelli della funzione statuale in rapporto ad una singola religione. Il livello minimo di questa funzione richiede al governo di non impedire alla propria gente l’adempimento dei riti e delle pratiche religiose. Dall’altra parte, il livello massimo è quello della totale conformità degli atti e dei principi dell’autorità di governo ai precetti di una particolare religione. Ovviamente, tra questi due estremi, possono essere considerati vari gradi intermedi dell’autorità religiosa.

Il  modello di sistema politico proprio allo “Stato religioso” include tutta una serie di caratteristiche e funzioni specifiche. Queste possono includere qualificazioni individuali, quali un governatore che appartenga necessariamente ad una religione o a una classe sociale, come avveniva per i governi degli Stati Europei durante il Medioevo. Si può anche definire un governo religioso da un punto di vista particolare, basandolo su una singola religione, sicché uno Stato religioso sarebbe a questa stregua soltanto quello che utilizza il suo potere militare, politico ed economico per promuovere e rafforzare la posizione di quella fede particolare.

Ciò ci induce a rivolgere la nostra attenzione a taluni aspetti di un governo religioso. Comunque, tutto questo non comporta necessariamente quello che la maggior parte dei movimenti e delle dottrine politiche contemporanee hanno in mente riferendosi allo “Stato Islamico”, ovverosia il livello massimo di realizzazione di uno Stato religioso.

Lo scopo primario di un governo islamico è quello di stabilire un’autentica società islamica. L’Islam non considera la società solamente come un conglomerato di individui. Piuttosto, crede anche che la società consista nelle relazioni e nell’ordine sociale che definiscono la vita di questi individui nella sua concretezza. Si tratta di uno dei fattori primari della definizione di una società, poiché società differenti vengono considerate giuste o ingiuste, sviluppate o sotto-sviluppate, complesse o semplici, conformemente al loro apparato sociale e al loro sistema di diritti e doveri. Le risorse finanziarie, i vantaggi sociali e le strutture del prevalente sistema politico sono tutte parti della complessa rete delle relazioni sociali, e contribuiscono al loro consolidamento. Quindi, una società islamica, per definizione, è una società ideale nella quale l’ordine sociale viene stabilito e regolato in accordo con i principi, gli insegnamenti e le norme islamiche.

Un governo islamico accetta ed ammette l’autorità assoluta dell’Islam. Esso cerca di stabilire un ordine sociale in accordo con i precetti dell’Islam, si adopera per applicare laShari’a, e si sforza di prendere le sue decisioni politiche e di espletare le sue funzioni pubbliche in accordo con gli obiettivi ed i valori dell’Islam.

Tale concezione dello Stato Islamico è ovviamente soggetta a critiche, specialmente da parte di coloro che adottano ideologie politiche secolari. Le pagine seguenti riportano qualcuna delle controversie concernenti questa teoria.

Rifiuto del governo islamico

Gli oppositori del governo Islamico possono essere classificati in due categorie prevalenti: la prima include i sostenitori del secolarismo, i quali affermano che la religione debba essere materia completamente separata dagli affari mondani. Nella loro prospettiva il concetto di Stato religioso è retrogrado e obsoleto. Essi ritengono che tale modello di sistema politico debba essere confinato ad un periodo in cui gli esseri umani mancavano della conoscenza e dell’esperienza necessarie per  organizzare il loro ordine sociale, ed abbisognavano della religione al fine di ordinare le loro relazioni legali, economiche e culturali. Il secolarismo non è comunque una dottrina riguardante solamente le relazioni tra religione e politica. Si tratta essenzialmente di un approccio radicale al ruolo della religione e della rivelazione nel dar forma alla conoscenza umana. Il razionalismo secolare ritiene che la ragione umana sia capace di avere una propria conoscenza, indipendentemente dalla rivelazione. Ragion per cui, la ragione sarebbe in sé stessa auto-sufficiente ed autonoma. L’umanità sarebbe dunque capace di ritrovare ed elaborare le scienze naturali ed umane, ed anche filosofia, legge ed etica, senza l’aiuto di Dio o della religione.

Il pensiero secolare, quindi, lascia un ruolo molto marginale alla religione. Secondo il pensiero secolare, la ragione umana è capace di ottenere la conoscenza in quanto funzione esclusiva dell’essere umano, senza avere nessun bisogno della fede o della rivelazione. Tale concezione restringe il ruolo della religione, riducendola a dar regola ai rapporti individuali tra l’uomo e il suo Creatore, ed isolandola dall’ordine sociale e politico. Questo perché le relazioni sociali sono parte degli affari “umani” e non di quelli “divini”: essi sono esterni alla religione, non ne fanno parte. Le concezioni e le strutture giuridiche, economiche e politiche, i nostri ordinamenti sociali, e i sistemi di diritti e doveri, vengono tutti considerati alla stregua di relazioni tra uomo e uomo, e non tra uomo e Dio. La religione in questi casi deve quindi delegare tutto alla ragione ed alla scienza umana.

Questa concisa panoramica del pensiero secolare dimostra che la riduzione del secolarismo ad una dottrina politica, la quale insiste puramente sulla separazione tra fede e politica, è inesatta. L’isolamento della religione dalla politica è uno dei tanti scopi e tratti del razionalismo secolare. I difensori di quest’idea insistono sul disimpegno della religione non solo dalla politica, ma anche dall’etica, dall’arte, dalla filosofia e dalle scienze. Di conseguenza, essi si rifanno non solo ad uno Stato secolare, bensì anche a leggi secolari, ad una cultura secolare, ad una scienza secolare, e così via.

Mentre il primo approccio assegna uno scopo limitato alla religione, il secondo gruppo di oppositori non ha argomenti contro coloro che credono che l’Islam non possa essere ristretto ad una sfera limitata. In linea di principio, essi concordano che nessuno ha il diritto di confinare i precetti e l’applicazione dell’Islam alla vita privata, o più precisamente alle relazioni individuali tra l’uomo e Dio. La convinzione centrale del secondo gruppo, comunque, è che sebbene l’Islam abbracci certi valori ed idee, esso non includerebbe sia spiritualità che politica. Non avrebbe quindi indicato o stabilito nessuna forma particolare di governo, e i Musulmani sarebbero liberi di sostenere il governo che essi desiderano.

Quindi il tratto distintivo fondamentale tra questi due gruppi è che, mentre i secolaristi affermano che religione e politica debbano essere separati, i secondi affermano che l’Islam non obbliga in nessun caso i suoi seguaci ad essere presenti nella sfera politica. Essi vogliono dimostrare che l’Islam non ha nessuna connessione con la politica, e concentrandosi sul Santo Corano e sui primordi della storia Islamica, argomentano che si tratterebbe di una dottrina puramente spirituale, opposta a quella politico-spirituale. I secolaristi, d’altra parte, si concentrano sulla domanda di modernità, sull’incapacità della religione di guidare ed organizzare il mondo contemporaneo e sul suo fallimento nel risolvere i problemi della modernità. Di conseguenza, sarà di vitale importanza chiarire se l’Islam ingiunga veramente ai suoi seguaci di stabilire un governo islamico, oppure no, e se l’Islam sia capace di regolare e guidare la società moderna oppure no.

Nessun credibile pensatore musulmano propugna la separazione della religione dagli affari mondani, come sostiene il pensiero secolare, riducendola a poco più di una relazione personale tra l’uomo e Dio. Infatti pochissimi studiosi islamici fanno appello al razionalismo secolare, insistendo sulla separazione della religione dall’ambito socio-politico, restringendo gli scopi della religione, ed estendendo il ruolo della ragione nelle vita pubblica. Ma sebbene questi pensatori non si definiscano esplicitamente secolaristi, la loro attitudine verso l’Islam e la politica ha ovviamente caratteristiche comuni con quelle dei secolaristi.

Avendo introdotto le due principali attitudini critiche verso il governo islamico, le seguenti pagine esamineranno gli argomenti principali addotti dagli esponenti di queste due scuole di pensiero.

Primo argomento

Nel suo famoso libro Al-Islam wa Usul al-Hukm (“L’Islam e i fondamenti del Governo”), Shaykh Ali Abd al-Raziq(2) (1888-1966) ha cercato di giustificare la separazione della religione dall’autorità politica sulle basi di considerazioni religiose. Egli ha affermato che il Profeta Muhammad (S) non intendeva stabilire uno Stato politico a Medina, e che l’Islam non propugna la formazione di nessun particolare sistema sociale.

Tale asserzione contraddice totalmente il credo tradizionale, il quale ammette concordemente che l’Hijra (l’emigrazione a Medina nel 622) segnò l’inizio dell’attività politica del Profeta (S) e la realizzazione del governo islamico. Abd al-Raziq dichiarava che il Profeta (S) fosse un portatore di un messaggio religioso: egli non era a capo di un governo, e neanche avrebbe cercato di stabilire un regno in senso politico o qualcosa di simile ad esso. Piuttosto, la sua autorità era sacra, derivata da Dio, e per questo ha potuto ricevere e consegnare la rivelazione divina. Secondo Abd al-Raziq ciò non implica una guida politica, poiché si tratta di un mandato di Profeta e non di Sultano.

A sostegno della sua tesi Abd al-Raziq fa riferimento a diversi versetti del Corano. Egli credeva che, in accordo a tali versetti, il Profeta Muhammad (S) fosse solo un messaggero incaricato da Dio di consegnare la rivelazione alle genti e nient’altro.

“Non ti inviammo se non come annunciatore di buona novella e come ammonitore” (17:105)

“Noi ti abbiamo inviato come nunzio ed ammonitore” (25:56)

“Io non sono altro che uno degli ammonitori” (27:92)

Abd al-Raziq scrive che se il Profeta Muhammad (S) avesse avuto altri ruoli, come quello di guida politica, il Corano lo avrebbe chiaramente dichiarato (3). Al fine di giustificare la sua posizione, egli asserisce che ogni Stato richiede una struttura politica che include istituzioni e amministrazioni specifiche, ma la guida politica di Muhammad (S) mancava di tali elementi di governo necessari. Infatti, secondo il suo punto di vista, l’autorità politica è apparsa nella comunità islamica solo dopo la dipartita del Messaggero di Dio (S). Di conseguenza, lo sforzo per stabilire un governo nulla avrebbe a che fare con gli insegnamenti islamici (4).

Comunque, contrariamente all’opinione di Abd al-Raziq, vi è una gran quantità di prove storiche che dimostrano chiaramente il ruolo del Profeta (S) sia in quanto capo politico che come guida religiosa. Infatti, anche molti pensatori occidentali quali Antony Black concordano sul fatto che l’obiettivo del Profeta (S) non fosse solamente quello di stabilire una nuova identità che rimpiazzasse i vecchi costumi tribali. Secondo questi pensatori, egli fu il depositario sia del potere politico che dell’autorità spirituale e culturale. Black scrive:

“Il suo obiettivo era quello di creare, al di là delle confederazioni tribali, un nuovo popolo guidato dal suo senso di missione morale. L’Ebraismo aveva predicato una legge comprensiva, mentre il Cristianesimo predicava una fratellanza spirituale, ma nessuna delle due religioni si era occupata seriamente del problema del potere e dell’autorità politica e militare: entrambe avevano accettato di sottostare ai regolamenti pagani a loro estranei. Muhammad predicò la fratellanza spirituale, una legge comprensiva e, simultaneamente, il conseguimento di un ordine politico universale.” (5)

Le attività del Profeta Muhammad (S) successive all’Hijra apportarono dei cambiamenti radicali nella Penisola Araba. Questo non può semplicemente essere considerato come il comportamento di una guida esclusivamente religiosa. Alcuni dei sui atti non avrebbero potuto essere compiuti senza autorità politica.

Egli riunì un numero di tribù ostili trasformandole in una nuova comunità (umma). Questo è essenzialmente uno sforzo politico, al quale si fa riferimento in quella che Montgomery Watt definisce come la “Costituzione di Medina”, un documento che definisce la natura dello Stato che il Profeta (S) intendeva stabilire.

La carta include articoli concernenti i diritti e i doveri delle varie tribù e raggruppamenti che formavano questa nuova società, ivi inclusi i loro obblighi reciproci, e i diritti dei membri non-musulmani di questa comunità (6).

Egli delegò responsabilità sia religiose che politiche ai suoi Compagni. Alcuni, come Amr Ibn Hazm, vennero mandati a guidare le preghiere e ad insegnare il Corano alla gente. Ma altri, come Abu Musa al-Ashari e Said Ibn Aas, erano suoi rappresentanti, nominati al fine di raccogliere le tasse (zakat), fare da giudici durante le dispute e punire i criminali, oltre che insegnare alla gente l’Islam. Qualche volta il Profeta (S) assegnava ai Compagni compiti esclusivamente governativi, come quando mandò Abu Sufyan a raccogliere le tasse a Najran, mentre Amr Ibn Hazm rimaneva il suo rappresentante religioso nella stessa regione (7).

Il Profeta (S) era un capo militare, un diplomatico e un giudice. Egli guidava l’esercito, concludeva trattati con varie tribù e giudicava i casi di crimine. Guerra, relazioni diplomatiche, giudizi legali, sono ovviamente tutte incombenze dell’autorità politica, e non hanno nulla a che vedere con un mandato puramente spirituale.

Oltretutto, è alquanto irragionevole paragonare le strutture di uno Stato moderno e l’autorità del Profeta (S) a Medina, al fine di stabilire se egli avesse o no fondato uno Stato politico. Il dottor Senhouri, ad esempio, ha affermato che l’ordine politico stabilito a Medina soddisfa adeguatamente le esigenze di una semplice comunità tribale, senza che vi fosse dunque il bisogno di stabilire un ordine sociale complesso, poiché il sistema politico del Profeta (S) corrispondeva ai bisogni del suo tempo e della sua società (8).

Qualche pensatore, come Abid al-Jabiri, ha affermato che poiché la parola “dawlat” (Stato) non venne adottata, con la sua connotazione politica, sino all’inizio dell’epoca Abbaside, neanche il concetto politico di Stato Islamico esisteva. Secondo al-Jabiri, il Profeta (S) stabilì una “umma”, non uno Stato. Comunque, sebbene sia vero che il termine “dawlat” non fosse corrente nel vocabolario arabo al tempo del Profeta (S), non è il nome a costituire uno Stato. Piuttosto, è la natura dell’autorità che stabilisce un governo islamico, e dunque il fatto che il termine “Stato” sia stato adottato o meno è irrilevante.

Sebbene Abd al-Raziq faccia riferimento ad alcuni versetti coranici al fine di giustificare la sua opinione che il Profeta (S) non avrebbe avuto nessun ruolo oltre a quello di messaggero, tali versetti non limitano affatto il ruolo del Profeta (S) ad una singola funzione. Si deve fare una chiara distinzione tra una restrizione relativa ed una restrizione assoluta. Quest’ultima limita il carattere del suo soggetto ad un solo aspetto, mentre la prima concerne un ambito limitato, e non ogni altro attributo. Ad esempio, qualcuno suppone che X sia scrittore e poeta. Voi lo correggete dicendogli che X è solo uno scrittore. Questo non significa comunque che X non abbia altre qualità oltre a quella di essere scrittore, poiché la vostra asserzione limita il suo carattere in rapporto a due soli attributi.

Tutti i versetti ai quali Abd al-Raziq si riferisce sono compresi nella prima categoria, che è quella della restrizione relativa. Essi sottolineano il fatto che il Profeta (S) non ha alcuna responsabilità nei confronti di coloro che non credono alla sua chiamata. Ma certamente il Profeta (S) in quanto essere umano ha molte altre qualità e doveri, perché l’enfasi posta su certe questioni all’interno di un contesto particolare, non annulla certo la possibilità di altri compiti e caratteri. Prendiamo, ad esempio, i seguenti versetti:

O Profeta, incita i credenti alla lotta” (8:65)

“Giudica dunque tra di loro secondo quello che Iddio ha rivelato, e non indulgere alle loro passioni” (5:49)

“In verità le vostre autorità sono Iddio e il Suo Messaggero” (5:55)

“Non abbiamo inviato un Messaggero se non affinché gli si obbedisca” (4:64)

 

Secondo argomento

Oltre ai sostenitori dell’opinione di Abd al-Raziq, altri oppositori del concetto di Stato Islamico ammettono che il Profeta (S), in effetti, fondò un ordine politico dopo la migrazione a Medina. Essi però credono comunque che ciò non stabilisca una connessione intrinseca tra Islam e politica. L’emergere dell’autorità del Profeta (S) a Medina è considerata poco più che un evento storico: una situazione particolare nella quale le circostanze socio-politiche abbisognavano di questo sforzo, piuttosto che di un’attitudine puramente spirituale della Rivelazione Divina.

Il dottor Haeri sembra adottare una simile opinione nel seguente passaggio, dove enfatizza il fatto che il governo del Profeta (S) si formò sulla base del consenso della gente, e solo in seguito sarebbe stato sottoscritto da Dio. Egli scrive:

“Alcuni Profeti del passato, e specialmente il Profeta dell’Islam, oltre all’eccelsa posizione conferita loro dalla Profezia, hanno governato le genti, e si sono dedicati alle faccende politiche. Comunque sono state le particolari circostanze che li hanno indotti ad accettare tale incarico, e dunque la politica non può essere considerata come parte della rivelazione di Dio.” (9)

A sostegno di questa sua tesi sull’autorità del Profeta (S), Haeri fa riferimento al seguente versetto coranico:

“Iddio si è compiaciuto dei credenti quando ti giurarono fedeltà sotto l’albero”(28:18)

Egli, ed altri che hanno adottato una simile opinione, insistono sul fatto che sebbene Dio abbia sottoscritto il patto di alleanza (bay’a) con il Profeta (S), la Sua approvazione non è sufficiente per stabilire che l’autorità politica è un obiettivo islamico. Comunque la relazione tra Islam e politica, e tra l’Islam e gli eventi storici concomitanti alla creazione di un ordine sociale Islamico, sono due questioni separate e distinte. Lo studio del secondo punto richiede una precisa analisi del contesto storico, sociale e culturale di quel tempo e di quell’area. Ma il primo punto necessita di una valutazione comprensiva della dottrina islamica, al fine di stabilire se l’Islam abbracci o meno la dimensione politica, e se possa in tal senso essere attuato. Molti sapienti Musulmani contemporanei, quali Muhammad Ammarah, difensore dello Stato Islamico, giungono alle seguente conclusione:

“Anche se il Nobile Corano non obbliga direttamente i Musulmani a formare un governo religioso, esso li obbliga a farlo attraverso alcuni doveri a cui sarebbe impossibile adempiere senza che venga costituito uno Stato Islamico” (10)

Il giuramento menzionato nel diciottesimo capitolo del Corano, noto come “bay’atul ridhwan”, venne prestato ad Hudaybiya, vicino alla Mecca, nel sesto anno dopo l’Hijra. Il Profeta Muhammad (S) ed alcuni suoi seguaci stavano preparandosi a compiere il pellegrinaggio alla Mecca, quando i politeisti Meccani vollero impedirgli di entrare nella città. In seguito a queste vicende pericolose, un certo numero di credenti giurò fedeltà al Profeta (S), promettendogli di rimanere al suo fianco e di proteggerlo dai nemici dell’Islam. Questo patto fu soltanto una riaffermazione della loro fedeltà in una situazione difficile, piuttosto che un segno dell’autorità politica del Profeta (S). Inoltre, l’evento si verificò cinque anni dopo che lo Stato Islamico era stato costituito a Medina, e quindi non è corretto considerarlo come all’origine del suo governo.

Quello a cui spesso ci si riferisce come al secondo patto di alleanza, noto come “bay’atul aqaba”, non ha neanch’esso nulla a che vedere la nomina di un capo politico. Paragonarlo agli eventi di Saqifa, in seguito ai quali Abu Bakr venne proclamato Califfo, dimostrerebbe esplicitamente che il patto di al-aqaba fu un riconoscimento dell’autorità politica del Profeta (S), perché le decisioni prese a Saqifa concernevano la guida dopo la dipartita di Muhammad (S). Ma la bay’a a Saqifa è stata un’elezione, mentre il patto dial-aqaba riguardava la protezione e la sicurezza del Profeta (S): i rappresentanti di Medina promisero di resistere ai politeisti e di proteggere il Profeta (S) come se egli fosse un membro della loro famiglia.

La seconda difficoltà per i sostenitori di questo argomento deriva da diversi versetti del Santo Corano, che stabiliscono ed approvano l’autorità (wilayat) del Profeta (S) sui credenti, senza riferimento ad alcuna accettazione precedente da parte della gente: ciò significa quindi che la sua autorità è un’autorità divina. Questi versetti saranno discussi in maggior dettaglio successivamente, ma per adesso ne menzioneremo alcuni:

“Il Profeta ha più autorità sui credenti di loro stessi” (33:6)

“In verità le vostre autorità sono Iddio e il Suo Messaggero” (5:55)

Terzo argomento

Un altro argomento adottato dai secolaristi al fine di inficiare la teoria di un governo religioso, si incentra su alcuni dei principi fondamentali di uno Stato Islamico (quali lo stabilirsi di un ordine sociale ideale in accordo con l’Islam, e l’applicazione della Shari’ain tutti i settori della società). I secolaristi che se ne avvalgono, affermano che un ordine sociale religioso sia una tesi assurda, a motivo di una difficoltà nota come “il problema dell’adattamento”. Al fine di giustificare il loro ragionamento, essi si affidano a due premesse:

Le relazioni sociali, economiche e culturali sottostanno ad un costante cambiamento e sviluppo: vi è una differenza significativa tra il nostro stile di vita contemporaneo e gli stili di vita delle generazioni precedenti, in settori ad esempio quali il trasporto, il commercio, l’educazione e così via. Quindi la struttura sociale è essenzialmente variabile, e nessuno può aspettarsi che una società rimanga stabile per un periodo di tempo prolungato.

La religione è fissa ed immutabile: ogni religione è confinata ad un periodo storico particolare, poiché è fondata su esigenze, circostanze e problemi di una particolare epoca. La religione è un evento verificatosi in un determinato luogo e periodo, e che non può ripetersi. Di conseguenza il messaggio di ogni religione è rigido, e privo di capacità di adattamento a nuove situazioni.

Un secolarista direbbe quindi che, siccome la religione è un insieme di idee fisse ed immutabili, essa è incompatibile con le relazioni sociali, che sono invece mutabili. E’ ragionevole ammettere che la religione sia capace di dar forma ad un ordine sociale ispirato alle sue convinzioni e dalla sua etica, ma solo quando le circostanze sociali lo permettono. Ad esempio, nel momento in cui l’Islam è emerso, è stato in grado di soddisfare tutte le esigenze di quel dato periodo storico. L’Islam ha quindi avuto successo nello stabilire una civiltà in quell’epoca. In ogni caso, sembrerebbe paradossale supporre che l’Islam sia in grado di plasmare un ordine sociale in ogni circostanza ed in ogni tempo. Il nocciolo di questo ragionamento è che le relazioni sociali sono fluide ed aperte ai cambiamenti, e che nessuno è capace di prevenire queste alterazioni sociali e di restringerle ad una struttura religiosa fissa. In definitiva, i secolaristi asseriscono che sebbene la Shari’a abbia le qualificazioni che la rendono compatibile con le formazioni sociali simili a quelle esistenti al tempo in cui l’Islam è apparso, vi sono invece seri ostacoli all’applicazione della Shari’a alle articolazioni sociali contemporanee.

Tale asserzione si basa sul presupposto che lo Stato religioso non lasci spazio all’adattamento ed ai cambiamenti sociali. Quindi, la risposta a questo argomento consisterà in tre punti:

– Una valutazione di questa interpretazione dei cambiamenti sociali.

– Aspetti del sistema legale islamico trascurati dai secolaristi, che rendono la religione dinamica e flessibile.

– Una spiegazione di ciò che si intende per “adattamento” della Shari’a, e la definizione precisa dell’“ordine sociale islamico”.

Classificare i cambiamenti sociali

Nessuno può negare la fluidità e la natura variabile delle relazioni sociali. I cambiamenti avvengono sia dopo un breve lasso di tempo, che gradualmente, dopo un periodo più prolungato. Queste relazioni hanno numerose dimensioni, ed influenzano vari aspetti della vita umana. Per quanto concerne la presente discussione, ossia quale sia il ruolo della religione in una società da essa ordinata, le dimensioni legali e morali sono le più importanti.

Secondo una prospettiva legale, ogni ordine sociale, con sue caratteristiche, si deve confrontare con molte esigenze. Un sistema legale efficiente deve essere in grado di affrontare i problemi, e di corrispondere alle esigenze dei nuovi sviluppi, ossia ai risultati dei cambiamenti sociali. Al fine di attuare nella pratica una religione che abbracci le interazioni sociali, il punto cruciale sarà l’istituzione di una struttura legale dinamica. Poiché lo scopo di uno Stato religioso è quello di armonizzare l’ordine sociale col sistema legale religioso, sarà essenziale comprendere la natura legale dei cambiamenti sociali.

La fondazione di una vera società islamica non potrà comunque limitarsi soltanto agli aspetti legali dell’ordine sociale. I risultati morali e culturali di tale rivoluzione sono anch’essi fondamentali. Un governo islamico dovrà dare la massima importanza alle virtù etiche ed ai principi islamici, facendo in modo che abbiano la massima efficacia nelle relazioni sociali. I difensori dello Stato Islamico credono che gli obiettivi e i valori religiosi, derivati dalle virtù etiche e dalla vera umanità, possano condurre la società umana verso un livello superiore di esistenza. Comunque, la tesi che nega la possibilità di armonizzare l’ordine sociale con le leggi e i principi islamici cerca in genere di ridurre la discussione ad un livello puramente legale, cercando di mostrare che il sistema giuridico islamico non è in grado di adattarsi ai cambiamenti sociali. Coloro che concordano con questa tesi ritengono che i cambiamenti sociali apportano inevitabilmente nuovi problemi legali senza precedenti. Essi sono convinti che un sistema legale religioso, a motivo della sua natura immutabile, non possa avere nessuna correlazione con i problemi con cui dovrebbe di volta in volta confrontarsi.

Infine, i cambiamenti sociali danno vita a due differenti settori della dimensione legale. Il primo è costituito dai  fenomeni sociali del tutto nuovi, senza precedenti. Riguardo a ciò, ogni sistema legale deve definire la sua posizione. Ad esempio, l’invenzione dei computer e lo sviluppo della tecnologia dell’informazione richiedono nuove legislazioni. Un altro esempio è la trasfusione, una nuova tecnica medica, di cui i giuristi dovranno chiarire l’aspetto legale; ed un altro esempio ancora sono le leggi riguardanti la donazione di organi. L’elemento che contraddistingue il primo gruppo, è che questi fenomeni richiedono più di una mera applicazione delle vecchie leggi, di quelle correnti, alle nuove situazioni. Essi richiedono piuttosto un insieme di nuove leggi, ovvero una legislazione aggiornata.

In secondo luogo, ci sono relazioni sociali che, sebbene siano nuove, sono emerse da relazioni pre-esistenti, e di conseguenza questi fenomeni sociali sono nuovi nella forma, ma non nel contenuto. Quindi, essi non richiedono una legislazione totalmente nuova: i giuristi potrebbero e dovrebbero classificarli in accordo con i rispettivi precedenti legali. Ad esempio, in passato esistevano solo alcuni tipi di compagnie, mentre adesso abbiamo molte forme di relazioni commerciali, che non definiscono una nuova problematica legale. Queste compagnie si distinguono da quelle del passato soltanto nella forma. In breve, per analizzare i cambiamenti sociali, sarà necessario adottare la conclusione seguente.

Secondo una prospettiva giuridica, i cambiamenti sociali non possono essere compresi sotto un’unica definizione. In generale, sotto questo riguardo si possono distinguere due tipi di trasformazioni sociali. Da un lato ci sono i fenomeni legali completamente nuovi e senza precedenti, mentre dall’altro lato ci sono quelli contraddistinti dalla medesima sostanza dei fenomeni passati compresi all’interno del disegno legale esistente, sebbene possano avere adottato, in tutto o in parte, una nuova forma.

 Flessibilità del sistema legale islamico

Quest’argomento, quando ci si limiti all’aspetto giuridico, sostiene che il sistema legale islamico sarebbe incompatibile con le trasformazioni sociali. Questo perché sarebbe rigido, privo dei requisiti giuridici richiesti per far fronte alle nuove circostanze, e quindi non potrebbe soddisfare le necessità legali della presente società.

Al fine di poter incidere sulle varie relazioni sociali, ogni sistema legale dovrà inevitabilmente essere comprensivo di elementi flessibili, nella sua metodologia e nei suoi fondamenti. Sebbene il sistema legale islamico non contenga esplicitamente questi fattori, è essenziale comunque prendere atto del fatto che esso possiede virtualità che lo rendono atto a manifestare tutti i requisiti giuridici richiesti dalle due categorie del cambiamento sociale sopra menzionate.

Il sistema legale islamico è in grado di agire sul primo gruppo di cambiamenti sociali. Anche se l’Islam si è affermato in un particolare periodo storico, la sua legislazione è universale, non storicizzabile, capace di plasmare le più diverse relazioni sociali. Le alterazioni sociali possono infatti, dal punto di vista legale, mantenere un elemento d’identità, nonostante i loro cambiamenti, il che consente alla Legge Islamica (Shari’a) di elaborare una dottrina giuridica generale, valida per le varie categorie di relazioni sociali. In ciascuna delle differenti sezioni della Legge Islamica esiste un insieme di regole immutabili, assolute e generali, che devono essere rispettate dai Musulmani in ogni luogo e tempo, ed alle quali viene loro richiesto di conformare le proprie relazioni pubbliche e private. Ad esempio, negli affari commerciali vigono alcune regole generali, come le seguenti:

E’ obbligatorio per tutti i credenti adempiere ai loro obblighi.

“O voi che credete, rispettate gli impegni” (5:1)

Alcuni tipi di contratti e transazioni, come l’usura, sono proibiti poiché comportano profitti illeciti:

“Iddio ha permesso il commercio e proibito l’usura” (2:275)

I contratti e le transazioni commerciali e finanziarie lecite includono condizioni generali quali il consenso reciproco, senza coercizione, ed escludono i metodi di arricchimento aleatori, come ad esempio il gioco d’azzardo:

“O voi che credete, non divoratevi l’un l’altro i vostri beni, ma commerciate con mutuo consenso” (4:29)

Questi esempi di obblighi, proibizioni e condizioni, concernenti un singolo aspetto della vita sociale, anche se non abbracciano tutti le regole islamiche in questo campo, ci aiutano a confrontare i modi di sviluppo dei contratti. Le nuove forme di contratto,  se non sono versioni alterate di forme preesistenti, ma invece sono affatto originali, possono nondimeno essere tutte incluse nelle due categorie del lecito e dell’illecito, secondo i rispettivi canoni. Ad esempio, l’“assicurazione” è un tipo di contratto del tutto nuovo, mentre l’acquisto di libri “on-line” è soltanto un nuovo metodo di commercio il quale, sebbene differente formalmente, è la continuazione di una particolare categoria di transazioni. Quando tutte queste nuove forme di contratti si conformano ai principi dallaShari’a, esse vengono considerate lecite.

L’altro aspetto importante della flessibilità della Legge Islamica risalta quando prendiamo in considerazione il ruolo del patto e della promessa in questo contesto. Alcuni versetti del Corano ordinano ai Musulmani di rispettare le loro promesse quando concludono un accordo:

“Rispettate il patto, ché in verità vi sarà chiesto di renderne conto” (17:34)

Questo principio permette ad uno Stato Islamico di accettare talune convenzioni internazionali al fine di farne uso a proprio vantaggio, sebbene alcune siano completamente nuove, come le leggi marittime, le leggi aeroportuali e quelle del commercio internazionale, le quali non hanno precedenti nella Shari’a.

La dottrina dell’“ijtihad”, che è la deduzione delle leggi dalle fonti islamiche, permette ad un giurisperito (faqih) di emanare decreti su materie sia vecchie che nuove. Ogni faqih è libero di promulgare nuovi decreti riguardanti soggetti privi di precedenti nella giurisprudenza imamita, il che conferisce al sistema legale islamico un alto grado di flessibilità, permettendogli di far fronte alle nuove situazioni. Tale prerogativa viene rafforzato ulteriormente dal punto di vista di quei giuristi che sostengono l’autorità assoluta del faqih (wilayat al-mutlaqa). Questa dottrina insiste sul fatto che il giurisperito, responsabile della società musulmana, ha il diritto di legiferare secondo le esigenze delle particolari condizioni oggettive. Tale soggetto verrà discusso ulteriormente nel prossimo capitolo.

Amministrazione razionale e amministrazione giuridica

Le incomprensioni riguardanti l’applicazione della Shari’a e il ruolo del fiqh(giurisprudenza islamica) nel governo dello Stato e della società, sono sorte da due opposte linee di pensiero le quali, erroneamente, sono giunte ad una medesima conclusione secondo cui il governo islamico è completamente incompatibile con l’“amministrazione razionale” prevalente nella maggior parte degli Stati moderni. La prima di queste due linee di pensiero insiste sul fatto che i Musulmani nel mondo moderno devono sottomettersi, per l’organizzazione dei loro affari economici, politici, sociali e culturali, ad un’amministrazione razionalista e tecnocratica. In questo tipo di amministrazione la ragione umana, la tecnologia e le scienze hanno autorità, mentre la religione rimane separata dagli affari mondani. Di conseguenza, tutte le decisioni pubbliche e l’organizzazione delle strutture fondamentali della società vengono prese conformemente alle direttive di un’amministrazione siffatta.

Il secondo gruppo sostiene invece l’incondizionata autorità della religione, e cerca di organizzare gli affari sociali in base all’“amministrazione giuridica” assoluta. Tale modello di amministrazione, secondo costoro, ignora il ruolo della conoscenza razionale, e insiste sul fatto che la soluzione di ogni problema deve provenire esclusivamente dalla giurisprudenza islamica (fiqh). In altre parole, questa scuola di pensiero si sforza di rimpiazzare la razionalità con la religione, avvalendosi di procedure puramente giuridiche.

Abbiamo osservato in precedenza che una tale interpretazione fuorviante del ruolo della giurisprudenza nell’amministrazione della società e nelle decisioni politiche ed economiche, proviene da un’incomprensione della natura dello “Stato religioso” e dell’“ordine sociale religioso”. Tale incomprensione della società e dello Stato religioso spiana la strada a quelle critiche che desiderano presentare lo Stato Islamico come retrogrado e ignorante nei confronti delle esigenze del mondo contemporaneo, e che considerano l’Islam come un sistema che nega la conoscenza umana, la razionalità ed il progresso.

Accettare la dottrina islamica, applicando le sue leggi, ed adottando i suoi obiettivi al fine di armonizzare le differenti realtà della vita è una cosa, ed il rifiuto della conoscenza umana e della razionalità è un’altra cosa. Questa linea distintiva posta tra l’amministrazione razionale e quella giuridica è puramente fittizia, poiché ignora ogni possibile cooperazione, mentre presume erroneamente che il governo religioso sia in ogni caso incompatibile con quello di uno Stato non fondato sulla religione. Ma vi è una terza concezione, che porta a godere dei vantaggi di entrambi i metodi di amministrazione, non fornendo alcun pretesto per supporre che l’integrazione dell’autorità religiosa e della razionalità sia impossibile. Nella storia del pensiero islamico, le scuole Sciita e Mutazilita hanno sempre creduto nella razionalità. Esse ammettono il ruolo dell’intelletto umano quale fonte significativa della conoscenza religiosa accanto alle fonti islamiche (il Corano e gli ahadith). La razionalità viene inclusa nelle fonti islamiche, ed anche il ragionamento viene preso in considerazione nell’ambito della conoscenza religiosa.

E’ necessario sottolineare che l’organizzazione dei rapporti sociali, nel suo complesso, include molti aspetti. Oltre alla legislazione, vi sono le politiche industriali ed economiche, i servizi sociali, l’educazione, e via dicendo. Sarebbe scorretto supporre che, sotto un governo islamico, queste funzioni andrebbero espletate esclusivamente dai giuristi, e che tutti i problemi sociali, economici e culturali sarebbero risolti dalla giurisprudenza. Infatti, la distinzione fondamentale tra uno Stato Islamico e uno secolare deve essere basata sull’accettazione o sulla negazione dell’autorità dell’Islam negli affari sociali, piuttosto che sulla negazione della razionalità e della conoscenza scientifica. Un’autorità islamica risponde ai bisogni di una società conformemente ai criteri islamici: il livello d’influenza della Shari’a dipende dall’importanza del soggetto dal punto di vista islamico. Ad esempio, il ruolo della Shari’a è maggiore nella legislazione che nella politica. I vari elementi di un governo islamico devono armonizzarsi ed adattare le loro funzioni e decisioni ai contenuti dell’Islam, sebbene possano continuare ad applicare i propri criteri e le proprie conoscenze scientifiche laddove queste siano richieste.

In conclusione, la tesi che l’Islam sia incompatibile con il progresso sociale o i cambiamenti dei vari aspetti dell’esistenza umana, è falsa. L’Islam non può esser confinato ad un particolare periodo storico, o ad un insieme di circostanze, poiché esso ha insita la capacità di guidare l’umanità verso la felicità in ogni epoca. Comunque, la capacità dell’Islam di adattarsi alle esigenze delle varie articolazioni e situazioni sociali non significa che l’Islam abbia un’attitudine passiva verso stili di vita alternativi. E’ illogico presumere che ogni sorta di concezione culturale, sociale o economica possa essere sottoscritta, poiché l’Islam possiede regole e valori universali che non sono in sintonia con certi stili di vita. Questo approccio non deriva dall’adozione di un particolare ordine sociale. Piuttosto, si tratta di un’attitudine attiva e dinamica, che emerge da un insieme di regole e principi immutabili, non ristretti ad una determinata epoca.

Obiettivi di uno Stato Islamico

Gli obiettivi sono un elemento essenziale di ogni sistema politico, poiché servono a distinguerlo e a separarlo dalle ideologie alternative. Gli obiettivi quali la creazione di uno stato di benessere, la buona educazione, la promozione della prosperità, e la difesa dei confini della nazione, non sono propri in esclusiva di nessun particolare sistema politico. Quasi tutte le teorie politiche enfatizzano infatti tali elementi. E’ necessario quindi definire gli obiettivi esclusivi di un governo religioso, chiarendo come essi si differenzino da quelli degli altri sistemi politici.

L’applicazione della Shari’a

L’applicazione delle leggi Islamiche è un carattere fondamentale dello Stato religioso. Un governo che neghi la Shari’a non può essere considerato un’autorità legittima: una nozione siffatta sarebbe paradossale e contraddittoria. Il Santo Corano obbliga i credenti ad applicare e rispettare le leggi islamiche in ogni settore della loro vita, sia pubblica o privata. Prendiamo per esempio i seguenti versetti:

“E su di te abbiamo fatto scendere il Libro con la verità, a conferma della Scrittura che era scesa in precedenza, e lo abbiamo preservato da ogni alterazione. Giudica tra loro secondo quello che Iddio ha fatto scendere” (5:48)

“Coloro che non giudicano secondo quello che Iddio ha fatto scendere, questi sono i miscredenti” (5:44)

“Ecco i limiti d’Iddio, non li sfiorate. E coloro che trasgrediscono i termini d’Iddio, quelli sono i prevaricatori” (2:229)

“Se siete discordi in qualcosa, fate riferimento a Iddio e al Suo Messaggero” (4:59)

Per il governo e i cittadini dello Stato Islamico è essenzialeadempiere a questo dovere, sì che le leggi siano in accordo alla Shari’a, e il loro sistema legale sia fondato sui principi della giurisprudenza Islamica (fiqh). Come avevamo già ricordato in precedenza, alcuni studiosi musulmani modernisti hanno criticato questa concezione giuridica, insistendo sulla pretesa che la Shari’a dovrebbe essere separata dall’amministrazione degli affari pubblici, e dall’elaborazione di un sistema dei diritti umani e dei doveri che regoli le relazioni sociali. Essi ritengono che in quest’ambito ci si debba regolare sulla base delle scienze umane, della razionalità, e di una concezione extra-religiosa dei diritti umani, piuttosto che sulla base della giurisprudenza islamica. Tale concezione secolare sottovaluta l’importanza della Shari’a in uno Stato Islamico.

 L’ingiunzione del bene e l’interdizione del male

L’Islam ha imposto a tutti i credenti il dovere di dar forma a una società sana, libera da corruzione e ingiustizia. Questo dovere viene stabilito dal principio “al-amr bi’l ma’ruf wa nahi an al-munkar” (l’ingiunzione del bene e l’interdizione del male), enunziato nei seguenti versetti coranici:

“Sorga tra voi una comunità che inviti al bene, raccomandi le buone consuetudini e proibisca ciò che è riprovevole” (3:104)

“I credenti e le credenti sono alleati gli uni degli altri: ordinano le buone consuetudini e proibiscono ciò che è riprovevole” (9:71)

Richiamare le genti al bene e prevenire l’ingiustizia è una responsabilità sia dello Stato che dei cittadini. Un governo islamico non può rimanere neutrale nei confronti alle condizioni morali e religiose della società. Inoltre, il governo deve anche occuparsi degli affari concernenti la sicurezza, il benessere e l’ordine sociale, mantenendo, nello stesso tempo, le virtù umane, il bene comune, l’etica e l’impegno religioso. Al contrario della maggior parte delle teorie politiche contemporanee, specialmente quelle basate sul liberalismo, l’Islam non sostiene il concetto di uno “Stato limitato”. Secondo l’approccio liberale, l’autorità di un governo si limita agli scopi definiti dal liberalismo e dalla sua interpretazione dei diritti umani e della giustizia sociale. Di conseguenza, il governo viene reso incapace di adottare una sua posizione per quel che riguarda la moralità, la religione e l’etica. Il fatto che qualcuno sia morale o immorale, religioso o irreligioso, tutto ciò non concerne che il singolo individuo, che può comportarsi a questo riguardo come gli pare. Solo se l’individuo infrange la legge o viola i diritti degli altri, al governo liberale è permesso di interferire nei suoi affari.

Si deve comunque osservare che il dovere di un governo religioso di prendere posizione nei confronti della situazione morale e religiosa della società, non permette ai governanti o ai cittadini Musulmani di imporre il credo e i valori islamici agli altri cittadini.

La tolleranza religiosa è una caratteristica fondamentale della dottrina islamica: un fatto che anche la storia testimonia. Ad esempio, gli Ebrei e i Cristiani della Penisola Iberica, al tempo in cui essa era sottoposta ad un governo musulmano, godevano degli stessi diritti di tutti gli altri cittadini, così come molte altre minoranze etniche e religiose dei restanti territori musulmani di quel tempo.

Su di un governo religioso, quanto alle condizioni morali della società, incombe in primo luogo la responsabilità della legislazione e della politica di governo. Uno Stato Islamico ha l’obbligo di incrementare le opportunità atte a promuovere la spiritualità, i valori etici e le virtù personali, facendo in modo di stabilire condizioni di vita che consentano alla popolazione d’avere un’esistenza confortevole, sicura e fruttuosa. Essenzialmente, il suo ruolo è quello di mantenere una sana atmosfera sociale. Gli individui sono liberi di scegliere il proprio credo e di avere le loro opinioni, ma in pubblico devono rispettare le leggi Islamiche. Ad esempio, non è dovere del governo Islamico controllare la vita dei singoli individui, per scoprire se vi sia chi in privato beva alcool, ma a nessuno è permesso di consumare in pubblico tale bevanda, perché un’autorità islamica ha il dovere tassativo di proteggere la società dalla corruzione e dall’immoralità.

Secondo il punto di vista islamico, l’alternativa tra felicità ed infelicità, tra bene e male, va ricondotta alla scelta fatta dall’essere umano. Dio dice:

“E gli abbiamo indicato la retta via, sia egli riconoscente o ingrato” (76:3)

“I miscredenti seguono il falso, mentre i credenti seguono la verità proveniente dal loro Signore” (47:3)

Quindi ad un individuo è permesso agire secondo i propri desideri e le proprie idee in privato, ma non gli è permesso di ledere la sanità morale e la stabilità della società. Niente deve impedire al governo ed ai credenti di sforzarsi di creare delle condizioni sociali favorevoli all’attuazione dei valori islamici, o rimuovere gli ostacoli sul sentiero di un corretto stile di vita.

Le dottrine politiche moderne tendono ad enfatizzare i diritti umani piuttosto che il bene umano. Per esse è meglio, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, adoperarsi per definire i doveri reciproci dei governanti e dei governati secondo i diritti degli esseri umani. Questo perché altri concetti quali la felicità, la virtù e il bene sociale sarebbero spesso ambigui, soggettivi e controversi. Ad esempio, esiste una corrente di pensiero, nell’ambito della filosofia politica, che sostiene esista un bene comune, e che la funzione del governo sia quella di determinarlo e attuarlo, mentre gli oppositori di questa concezione sostengono invece che vi sarebbero alcune difficoltà significative che impediscono venga definito il concetto di “bene comune”. I pensatori politici modernisti si chiedono in genere: “Che cos’é un bene comune? E come facciamo noi a conoscerlo?”. Robert Dahl afferma:

“Ogni tentativo di definire il bene comune ha prodotto risultati o troppo limitati per essere generalmente accettati, o troppo generali per essere veramente rilevanti ed utili.” (11)

La dottrina islamica risolve questo problema del “bene comune” estendendolo oltre i confini di una singola comunità. Non solo i membri di una comunità hanno un bene comune, ma anche tutti gli esseri umani condividono inclinazioni e bisogni comuni, che sono in grado di soddisfare correttamente attraverso le proprie azioni e con l’aiuto di un governo islamico vero e giusto.

Proteggere la vera libertà degli esseri umani

La libertà è uno dei più importanti valori sui quali si fonda il pensiero politico occidentale. Sebbene vi siano opinioni contrastanti per quel che riguarda la natura della libertà tra i pensatori occidentali, i liberali ritengono che la libertà individuale sia il valore umano fondamentale e definiscono e valutano ogni altro valore in accordo alla sua relazione con esso (12). Poiché la maggior parte delle persone in Occidente hanno una concezione di libertà di tipo liberale, esse spesso hanno delle riserve sul fatto che un governo religioso possa promuovere la libertà del suo popolo. A prima vista, potrebbe sembrare strano supporre che l’Islam, con la sua natura inflessibile, possa agire con efficacia per la salvaguardia della libertà umana. Ma prima di procedere in questa discussione, è doveroso esaminare e valutare la concezione liberale della libertà.

L’ideologia liberale definisce la libertà come assenza di coercizione esteriore, nota anche come “libertà negativa”. Tale definizione della libertà ha origine dalle teorie di pensatori quali Hobbes e Bentham, i quali l’hanno considerata semplicemente come l’assenza di impedimenti esterni, fisici o legali. Comunque, questa teoria nulla fa per riconoscere gli ostacoli ovvi e immediati della libertà, quali la mancanza di coscienza, la falsa coscienza, od altri simili fattori intrinseci. Infatti, davanti a tale problema, l’unica giustificazione di una posizione siffatta, è la pretesa che tali fattori intrinseci sarebbero irrilevanti nella questione della libertà, e che usarli sarebbe un abuso. Pertanto la libertà, secondo questa concezione, non può essere altro che l’assenza di ostacoli esterni. (13)

La concezione positiva della libertà sostiene invece che la libertà comporta la presenza e la realizzazione nell’essere umano di talune virtualità ed attitudini, e ritiene che se queste virtualità non vengono realizzate, la persona non può essere veramente libera, anche se non è soggetto a coercizioni esterne. Laddove la libertà negativa è meglio descritta con l’espressione “libertà da” (intendendo “libertà dalla compulsione”), la libertà positiva può essere definita in quanto “libertà per”, intendendo il fatto che una persona deve essere libera al fine di realizzare le proprie capacità. Quindi è necessario, per definire la libertà positiva, elaborare una concezione della natura umana, stabilendo quali siano le sue attitudini ed i suoi bisogni. (14)

Taylor ritiene che secondo la concezione positiva, la libertà consista nell’esercizio del controllo della propria vita da parte dell’essere umano:

“Le dottrine che propugnano la libertà positiva, hanno una visione della libertà che include come elemento essenziale l’esercizio del controllo della propria vita: si è liberi solo se si è effettivamente in grado di controllare sé stessi e di gestire la propria vita. Il concetto di libertà qui proposto è un concetto-esercizio.” (15)

Secondo la concezione islamica della natura umana, ciascuno di noi è soggetto a vari desideri e capacità. Coloro che seguono solamente i loro istinti naturali rimarranno nella prigione dei loro bassi desideri, incapaci di realizzare le proprie potenzialità. Ma coloro che esercitano il controllo su sé stessi, ed invece di obbedire ai propri impulsi, si sforzano di purificarsi, sono veramente liberi. Il Corano dice:

“Non hai visto quello che assume a divinità i suoi bassi desideri? Iddio scientemente lo allontana, suggella il suo udito e il suo cuore e stende un velo sui suoi occhi. Chi lo potrà dirigere dopo Iddio? Non riflettete dunque?” (45:23)

“Sappi allora che essi seguono solo i loro bassi desideri, niente di più. Chi è più sviato di chi segue il suo desiderio senza guida alcuna da parte d’Iddio? In verità Iddio non guida gli ingiusti” (28:50)

Secondo questa prospettiva, che intende la libertà in senso positivo, l’Islam deve essere riconosciuto quale guida perfetta proveniente da Dio e come strumento divino per giungere alla vera libertà umana. Il Corano dice:

“…A coloro che seguono il messaggero, il Profeta, l’ummi che trovano chiaramente menzionato nella Torah e nel Vangelo, colui che ordina le buone consuetudini e proibisce ciò che è riprovevole, che dichiara lecite le cose buone e vieta quelle cattive, che li libera del loro fardello e dei legami che li opprimono. Coloro che crederanno in lui, lo onoreranno, lo assisteranno e seguiranno la luce che è scesa con lui, invero prospereranno” (7:157)

Questo versetto, così come molti altri, dichiara che la rivelazione ricevuta dal Profeta (S) è stata fatta discendere come guida per tutta l’umanità. L’Islam è capace di liberare gli esseri umani dalle catene dei loro bassi desideri, di sollevarli da uno stato di ignoranza (riguardo a Dio e all’Aldilà) ad uno stato di illuminazione. Sottomettendosi alla rivelazione divina e agli insegnamenti del Profeta (S), la persona prende il chiaro impegno di adorare e ubbidire a Dio, di controllare sé stessa, e di accettare certi limiti. In altre parole, l’Islam è una religione, un modo di vita che abbraccia gli aspetti sia spirituali che mondani della vita umana, ed ingiunge ai suoi seguaci di seguire un determinato stile di vita. Tutto ciò differisce dalla concezione liberale negativa della libertà umana, poiché delimita il libero arbitrio. Ma secondo il punto di vista islamico, queste limitazioni aiutano l’uomo a raggiungere la vera libertà, inclusa eminentemente nell’esistenza spirituale propria alla prossimità divina.

In conclusione, una delle funzioni chiave di uno Stato Islamico è quella di stabilire condizioni sociali tali da consentire agli esseri umani di realizzare le proprie potenzialità, liberandosi di fardelli che ostacolano quest’opera. Questo significa che gli esseri umani potranno promuovere le proprie virtù, preparandosi alla salvezza ultima.

Stabilire una giusta società, e rispettare la giustizia (adl) e l’equità (qist) sono due tra i più importanti doveri secondo la dottrina islamica. Ci sono molti versetti nel Corano che obbligano i credenti a trattare le persone con equità e giustizia:

“Invero inviammo i Nostri messaggeri con prove inequivocabili e facemmo scendere con loro la Scrittura e la Bilancia affinché gli uomini osservassero l’equità” (57:25)

“Iddio vi ordina di restituire i depositi ai loro proprietari e di giudicare con giustizia” (4:58)

“O voi che credete, attenetevi alla giustizia e rendete testimonianza innanzi a Iddio, fosse anche contro voi stessi, i vostri genitori o i vostri parenti, si tratti di ricchi o di poveri. Iddio è più vicino agli uni e agli altri. Non abbandonatevi ai bassi desideri, sì che possiate essere giusti. Se vi destreggerete o vi disinteresserete, ebbene Iddio è ben informato di quello che fate” (4:135)

Questi concetti di giustizia ed equità includono i molti e vari aspetti della vita pubblica e privata. In rapporto al potere politico, essi impongono al governo di far sì che a tutte le persone vengano concessi pari diritti alla cittadinanza, alla protezione, ed ai benefici che ne derivano, indipendentemente dalle loro differenze etniche, dal loro credo, e dalle loro capacità.

Comunque, lo stabilirsi di una società basata sulla giustizia e l’equità non richiede l’“uguaglianza legale”. Ciò significa che in essa non v’è bisogno d’adottare un sistema legale che stabilisca diritti e doveri universali ed indiscriminati per tutti i membri della società. Infatti, l’uguaglianza legale è inattuabile in pratica. Tutti i sistemi legali contemporanei adottano ineguaglianze legali all’interno dei propri ordinamenti. In politica ad esempio, nessuno Stato democratico permette ai bambini di votare, mentre in economia il salario degli esperti qualificati è maggiore di quello degli operai. Allo stesso modo, il sistema legale islamico, che è legge divina rivelata, include ineguaglianze legali. Queste si hanno in casi come l’eredità, dove quella di una donna è minore rispetto a quella di un uomo. Quindi, la giustizia sociale e il buon governo non possono essere definiti in base ad un’eguaglianza assoluta. Invece, la giustizia sociale islamica viene realizzata in virtù dell’applicazione completa e corretta delle leggi (Shari’a) e dei principi islamici, senza eccezioni.

Uno Stato Islamico si distingue grazie agli elementi sopra citati, i quali sono prescritti del Corano e delle tradizioni. Altri elementi sono lo sradicamento della tirannia, la promozione della tolleranza e della pacifica convivenza con i non-Musulmani nel territorio Islamico, la diffusione della conoscenza, e la creazione di una condizione di benessere generale, al fine di diminuire il divario economico tra ricchi e poveri. Infine, è essenziale che il governo islamico venga diretto da una guida giusta e competente, che ne possa realizzare gli obiettivi fondamentali. Ciò viene enfatizzato nella seguente tradizione dell’Imam Rida (as):

“Alcune delle ragioni della nomina degli emiri (detentori dell’autorità) legittimi da parte d’Iddio, e dell’ubbidienza a loro dovuta, sono le seguenti: in primo luogo, le persone si sentono in dovere di seguire i governanti che li aiutano contro la corruzione. E non è possibile seguire tali governanti, a meno che il potere non venga affidato ad un governante degno di fiducia. In secondo luogo, la prosperità delle nazioni dipende dal fatto che vi siano governanti che cerchino di risolvere i loro problemi temporali e spirituali. Iddio, il Saggio, non ha mai lasciato le Sue creature senza una guida. La terza ragione è che, durante l’assenza di una giusta guida, i comandamenti e gli ordini religiosi verrebbero distrutti” (16)

Ambiti del pensiero politico islamico

E’ attualmente in corso un significativo dibattito politico, che verte su argomenti assai vari. Molti sapienti ed intellettuali esaminano vari ambiti del pensiero politico, quali la filosofia politica, la dottrina politica, la scienza politica, ed i sistemi politici. I pensatori che studiano la relazione tra l’Islam e la politica, sono in genere interessati a scoprire che sorta di dottrina politica l’Islam possano offrire, ovvero se le fonti islamiche propugnino o no una filosofia od una dottrina politica particolari, od un particolare sistema politico.

Storicamente, il pensiero politico islamico ha avuto per temi principali il ruolo della guida: i mezzi per nominare un’autorità politica, e le qualità che un governante deve possedere. Qualcuno potrebbe supporre che l’Islam abbia ristretto la discussione ad un ambito alquanto limitato, e che quindi non s’avveda di molte altre serie questioni politiche. A questo proposito, è necessario distinguere tra l’eredità politica dei pensatori Musulmani, e quelli che sono i contenuti dell’Islam. L’eredità politica dei pensatori Musulmani è contenuta nei lavori di alcuni eminenti giuristi, filosofi e teologi sia Sciiti che Sunniti, e le discipline oggetto dei loro studi possono essere suddivise in quattro categorie principali: teologia politica, filosofia politica, giurisprudenza politica ed etica politica. E’ essenziale dare un breve ragguaglio di questi aspetti del pensiero politico islamico al fine di chiarire le prospettive e la natura delle discussioni dei capitoli che seguiranno.

Teologia politica

Il dibattito politico islamico è stato profondamente influenzato da una lunga storia di divergenze teologiche tra sapienti Sciiti e Sunniti. Il pensiero politico Sciita, la più antica e originaria teoria politica islamica, è essenzialmente teologico, poiché il suo oggetto primario è la guida: le caratteristiche della giusta guida e il metodo corretto per la sua identificazione e nomina. La scuola di pensiero Sciita non restringe queste questioni solamente ad una discussione politica o giuridica, piuttosto le considera una componente fondamentale della dottrina islamica. L’Imamato è il punto focale di questo aspetto del pensiero politico, e molte opere sono state scritte su questo argomento da molti pensatori appartenenti a scuole differenti.

Filosofia politica

La filosofia politica si occupa di un insieme di conseguenze che derivano dalla sfera metafisica ed etica. Gli scritti politici di al-Farabi sono un esempio tipico dei risultati conseguiti in questo campo. Per definizione, la filosofia politica deve rimanere indipendente da ogni particolare sistema religioso o insieme di credenze, poiché è basata su premesse metafisiche razionali. I filosofi islamici hanno elaborato le basi razionali della filosofia politica, prima di applicare tali premesse filosofiche alla deduzione delle loro teorie politiche. Negare la validità della filosofia politica islamica, vuol dire ignorare gli aspetti filosofici e dottrinari delle questioni politiche. Molti problemi filosofici in politica sono strettamente correlati con la religione. Ed esistono molti insegnamenti islamici che offrono, direttamente o indirettamente, risposte adeguate a questioni essenziali della filosofia politica.

Etica politica

L’etica politica fa riferimento a una serie di scritti di sapienti Musulmani che hanno cercato di consigliare i governanti, in modo da guidarli ad un giusto ed efficace metodo di governo. Tali prescrizioni venivano generalmente accompagnate dalle storie dei re e dei governanti precedenti. Si trattava di raccolte di insegnamenti islamici, di filosofia greca e di qualche elemento presente nella letteratura persiana. Tra gli esempi possiamo citare ilSiyasat Namih (Il Libro del Governo) di Nidham al-Mulk (1020-1092) e il Nasihat al-Mulk (Consiglio al Re) di al-Ghazali (1058-1111).

Giurisprudenza politica

I giuristi Musulmani (fuqaha) hanno adottato il metodo della giurisprudenza politica (o “fiqh al-siyasi”), al fine di spiegare e definire il sistema politico islamico e gli aspetti giuridici degli affari politici. Essi hanno discusso dei doveri dei governanti, del metodo di nomina, di come destituire le guide politiche, delle qualità personali che deve possedere un Imam o il suo rappresentante (califfo), e della relazione tra i differenti elementi del governo. La giurisprudenza politica si sovrappone alla teologia politica in vari ambiti, come ad esempio nella discussione concernente la guida. Comunque, la giurisprudenza politica si distingue per la sua metodologia e per l’ampiezza dei suoi obiettivi. Al-Ahkam al-Sultaniyya, scritto dal giurista al-Mawardi tra il 1045 e il 1058, è un buon esempio di questo aspetto dell’eredità politica islamica.

Asserire che l’Islam possiede una dottrina politica comporta l’impossibilità, per ognuna di queste discipline del pensiero islamico, di esplicarne i vari aspetti separatamente dalle altre. La dottrina politica elabora tutto un insieme di idee e di prescrizioni capaci di dirigere l’azione politica. Ogni ideologia politica si prefigge degli obiettivi finali, e indica una particolare forma di ordinamento politico, basato su determinate norme, principi e diritti, ed atto ad amministrare la cosa pubblica. In breve, un’ideologia politica si sforza di individuare le soluzioni decisive dei problemi politici della vita umana. Essa cerca di ordinare le relazioni politiche in conformità con idee e direttive determinate. Ogni ideologia politica si affida alla filosofia politica per esprimere la sua posizione su questioni politico-filosofiche fondamentali concernenti la natura umana, quali i concetti di giustizia e di libertà con le loro limitazioni, la relazione tra la libertà e l’uguaglianza e così via.

Da questa breve esame dell’ideologia politica risulta evidente quanto le sue dimensioni possano essere estese. Quindi, la dottrina politica islamica dovrà occuparsi di tutti e quattro gli aspetti dell’eredità politica islamica, specialmente per quel che riguarda la filosofia politica e la giurisprudenza.

Non è comunque intenzione di questo libro illustrare l’intera politica islamica, ivi incluse le dispute e le divergenze tra le varie scuole ed i vari movimenti. Il tema centrale delle pagine seguenti sarà la dottrina politica Imamita, ossia la dottrina dell’Imamato durante il periodo della presenza manifesta dell’Imam Infallibile, e quella della “wilayat al-faqih” nel tempo del suo occultamento. Sebbene, al fine di mantenere questo libro conciso, la dottrina politica non venga discussa in dettaglio, ne saranno comunque chiariti gli aspetti più importanti. Nei capitoli che seguono ci si occuperà di questioni d’argomento teologico, filosofico, e soprattutto giuridico.

NOTE


1) Oliver Leaman, “A Brief Introduction to Islamic Philosophy”, Polity Press, 1999, p. 134.

2) Nato in Egitto, discepolo di Shaykh Abduh, Abd al-Raziq ha studiato all’università di Oxford ed è stato un alto membro dell’università di al-Azhar, autorevole centro di studio Sunnita. Il suo breve ma controverso libro ha causato molte discussioni nei circoli religiosi e politici. Al-Azhar ha immediatamente condannato il lavoro di Abd al-Raziq: egli è stato così espulso dall’università e privato dell’incarico di giudice religioso.

3) “Islam wa Usul wa Hukm”, Cairo, 1925, p. 73.

4) Ibid.

5) Anthony Black, “The History of Islamic Political Thought”, Edinburgh, University Press, 2001, p. 10.

6) Montgomery Watt, “Islamic Political Thought”, p.5

7) Tabari, “Tarikh al-Rasul wa al-Malik”, vol. 3, p. 318.

8) Ahmad Abd al-Raziq al-Senhouri, “Fiqh al-Khulafah wa Tatawuriha”, Cairo, 2a edizione, 1993, p. 82.

9) Mehdi Haeri Yazdi, “Hikmat wa Hukumat”, London, Shadi Publication, 1995, p. 143.

10) Muhammad Ammarah, “Al-Ilmaniyat wa Nihzatuna”, Cairo, Dar al-Shurugh, 1986, p. 35.

11) Robert Dahl, “Democracy and its Critics”, Yale University Press, 1989, p. 283.

12) Ad esempio Immanuel Kant in “Teoria e Pratica” definisce la giustizia come la “restrizione della libertà di ogni individuo così che si armonizzi con la libertà degli altri”. Secondo Kant, la giustizia è più di una condizione in cui la libertà esteriore viene garantita a tutti, piuttosto è la condizione di massima libertà per tutti (Allen Rosen, “Kant’s Theory of Justice”, Cornell University Press, 1993, pp. 9-11).

13) Charles Taylor, “What’s Wrong with Negative Liberty?” in “ Political Philosophy”, Robert E. Goodin (ed), Blackwell, 1997, p. 418.

14) Rymond Plant, “Modern Political Thought”, Blackwell, 1991, p. 222-3.

15) Charles Taylor, “Contemporary Political Philosophy”, Blackwell, 1997, p. 419.

16) Muhammad Ibn Ali Ibn Babawayh (Shaykh Saduq), “Illal al-Shari’a”, Qom, Maktiba Davari, p. 253.

 

Traduzione a cura di Islamshia.org

Fonte: Islamshia.org 

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