Al rischio golpe contro Erdoğan, segue il disgelo tra Turchia e Israele


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(Luisanna Deiana) – Le voci di un probabile colpo di stato militare in Turchia contro l’attuale presidente Recep Tayyip Erdoğan si sono susseguite in modo frenetico sulla stampa internazionale fino all’attentato del 31 marzo scorso a Diyarbakir, città della Turchia sudorientale a maggioranza curda, nel quale sono morti 7 militari delle forze speciali e altri 27 sarebbero rimasti feriti. L’origine militare dell’attentato è stata immediatamente smentita dalle Forze Armate di Ankara che hanno ribadito la loro fedeltà alle linee di comando presidenziali.

Guerra psicologica o pura finzione, il risalto dato alla notizia a livello internazionale ha costretto lo Stato Maggiore turco a smentire in modo categorico l’ipotesi di un colpo di stato militare. Nella dichiarazione pubblicata sul sito internet delle Forze Armate si legge: «Disciplina e obbedienza incondizionata sono alla base delle forze armate turche. Non verrà fatta alcuna concessione a catene di comando illegali ed estranee alla gerarchia militare istituzionale».

La precisazione è insolita e va analizzata considerando il ruolo delle forze armate nella recente storia turca. L’esercito, che rappresenta il contingente NATO più numeroso dopo quello americano, ha avuto un ruolo determinante nella storia del paese attuando quattro golpe nel 1960, 1971, 1980 e nel 1997 con la destituzione del Governo Erbakan di ispirazione filoislamica e maestro di Erdoğan.  I militari si considerano infatti i guardiani del principio di laicità del fondatore della Turchia moderna Ataturk e godono di un grosso sostegno presso l’opinione pubblica. Oltre alla manipolazione della notizia da parte dei media occidentali, sui settori militari turchi, incombe l’influenza del magnate e imam Fethullah Gulen, in esilio negli USA dal 1999, ex alleato e ora nemico giurato di Erdoğan.

La campagna mediatica anti-Erdoğan portata avanti per settimane dalla stampa americana si è focalizzata sull’ipotesi di un prossimo colpo di stato in Turchia, tanto che il 24 marzo la rivista Newsweek ha pubblicato un esplicito articolo dell’ex funzionario della Difesa Usa, Michael Rubin, intitolato «Ci sarà un golpe in Turchia contro Erdoğan?». Che i media americani stiano cavalcando il gelo profondo nelle relazioni tra USA e Turchia seguito all’abbattimento di un jet russo da parte di un F-16 turco lo scorso novembre, trova conferma nel rifiuto del presidente americano Barack Obama di incontrare il premier turco a margine del vertice sulla sicurezza nucleare, tenuto a Washington dal 31 marzo al primo aprile. Sempre a fine marzo il Pentagono ha inoltre dato ordine alle famiglie di diplomatici e militari americani di lasciare il sud della Turchia a causa di “crescenti minacce da parte di gruppi terroristici”.

Anche in Europa non sono mancate le occasioni per ridimensionare il ruolo del “califfo” Erdoğan. In Germania il presidente turco è stato pesantemente ridicolizzato con un videoclip mandato in onda dal programma satirico Extra 3, trasmesso sul canale nazionale NDR, che ha preso di mira le sue presunte spese stravaganti e la violenta repressione delle libertà civili. Immediata la protesta di Ankara che ha chiesto di cancellare il video dalla programmazione del palinsesto. Altro episodio che ha screditato Erdoğan a livello internazionale è stato il tentativo di partecipazione dei diplomatici europei alla prima udienza, tenuta il 25 marzo a Istanbul, del processo contro due giornalisti turchi del quotidiano di opposizione Cumhuriyet, Can Dundar ed Erdem Gul, accusati di spionaggio e divulgazione di informazioni riservate e propaganda a favore di organizzazione terroristica. L’udienza si è poi svolta a porte chiuse per ragioni di “sicurezza nazionale”.

Nella guerra di nervi tra Turchia e Usa si scorge uno scenario ben più ampio della crisi siriana: la cooperazione turca con la Cina, il rischio di un riavvicinamento all’Iran, il rifiuto di identificarsi con la strategia di contenimento degli Stati Uniti, il crescente disinteresse per il processo di adesione all’UE e il sostegno dato ad Hamas e ai Fratelli Musulmani sono elementi sintomatici di un problema ben più grande, vale a dire il tentativo della Turchia di condurre in autonomia scelte di politica estera pur essendo un paese della NATO. Il modello di “leader musulmano moderato che avrebbe colmato il divario tra Oriente e Occidente” identificato da Obama in Erdoğan nel 2010 si è rivelato fallimentare e contrario alle aspettative americane.

Ad offrire una via d’uscita al sempre più isolato Erdoğan, il giorno dopo l’attentato di Istanbul del 19 marzo, è accorso il direttore generale del Ministero degli Esteri israeliano Dore Gold che si è recato in Turchia per incontrare il sottosegretario agli Esteri Feridun Sinirlioğlu, responsabile per la normalizzazione dei rapporti tra Ankara e Gerusalemme. Quella di Gold è la prima visita di un diplomatico israeliano di alto livello in Turchia dopo l’incidente della Freedom Flotilla del 2010. Se infatti la Turchia resta strategica per gli USA in quanto unico alleato NATO confinante con Siria e Iraq e risulta quindi fondamentale per contenere i costi connessi alla logistica operativa negli sforzi di guerra in Medio Oriente, è evidente che i ripetuti avvertimenti inviati a Erdoğan non lasciano spazio a nuove iniziative turche fuori dalla programmazione americana.

Il disgelo tra Israele e Turchia annunciato l’11 aprile dagli organi ufficiali israeliani palesa il nuovo orientamento che la Turchia intende seguire nella gestione delle vicende medio-orientali.

Isolata dalla Russia e ai ferri corti con gli USA che hanno appoggiato l’indipendentismo dei curdi siriani, la Turchia riconciliata con Israele potrà usufruire di una tecnologia militare d’avanguardia, rafforzando il suo ruolo internazionale soprattutto con l’Unione europea, e si renderà indipendente dalle forniture energetiche russe, usufruendo del gas che Israele si prepara a estrarre da enormi giacimenti sottomarini.

Il nodo centrale del riavvicinamento turco-israeliano si gioca sugli aiuti umanitari che i turchi vorrebbero continuare a portare a Gaza. La soluzione israeliana prevede che la Turchia prenda le distanze da Hamas e che i carichi di rifornimenti diretti a Gaza siano controllati sulle piattaforme israeliane in alto mare.

Sullo sfondo delle rinate relazioni tra Turchia e Israele, si muovono i sunniti dell’Arabia Saudita che vedono negli israeliani un importante alleato contro un nemico comune, quell’Iran che americani e europei hanno riabilitato a livello internazionale. Nonostante la fine delle sanzioni, a Riyad resta alta la guardia contro il pericolo iraniano ritenuto responsabile di alimentare la ribellione nel mondo sunnita.

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