Analisi / La pace in Siria solo con Assad. Il dietrofront di Usa e opposizione


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(Alessandro Aramu) – Giunta al quarto anniversario di guerra, dopo oltre 215 mila morti e circa 3,8 milioni i rifugiati, con poco più di un terzo del territorio in mano ai gruppi terroristi, la Siria è sempre più nelle mani del suo presidente, Bashar al –Assad che, come hanno riconosciuto gli stessi servizi di intelligence occidentali, non è mai stato così forte. Il suo consenso si è rafforzato negli ultimi mesi, grazie a una serie impressionante di vittorie in campo militare che hanno consentito di riconquistare posizioni ai danni delle bande armate che hanno devastato un paese e oggi sono unanimemente riconosciute come il pericolo che la comunità internazionale deve sconfiggere. I ribelli moderati praticamente non esistono più, la maggior parte di combattenti gravitano intorno alla variegata galassia jihadista di cui lo Stato Islamico è solo la punta dell’iceberg.

L’Esercito Siriano Libero, un tempo il principale gruppo di opposizione armato, è una sorta di armata Brancaleone che continua a perdere pezzi. Una parte è passata nelle file dei gruppi jihadisti, considerati meglio organizzati e capaci di pagare meglio, un’altra ha deciso di consegnarsi alle autorità governative, alcuni hanno deposto le armi e hanno rinunciato a combattere, altri hanno giurato di nuovo fedeltà ad Assad per combattere i tagliagole dell’ISIS e i terroristi che, come al Nusra, sono scesi persino a patti con l’odiato Israele.

Anche il gruppo Harakat Hazm, milizia ribelle creata dalla Cia per distribuire armi e combattere l’esercito governativo, dopo un anno si è arresa e si è sciolta. Il resto è un caos totale. Nessuno oggi è in grado di dire quanti e quali sigle armate siano operative sul territorio, molte di queste combattono tra loro per accaparrarsi il controllo di un territorio nel quale può essere vantaggioso fare affari: sequestri, traffico di armi, droghe, medicinali e contrabbando di petrolio. Una cosa è certa: ai ribelli moderati (definizione che il governo di Damasco, non senza ragione, rifiuta fermamente), resta soltanto il controllo di poche comunità a nord-ovest e a sud.

In questo contesto sono quasi 5 milioni i siriani che vivono in zone direttamente interessate dal conflitto, in luoghi sotto assedio e in cui manca cibo, acqua, energia elettrica e assistenza sanitaria. Le milizie anti Assad sono sempre più deboli e anche l’ISIS, malgrado la propaganda che lo fa apparire come una forza invincibile, è in ripiegata. L’informazione occidentale attribuisce questa ritirata ai bombardamenti della coalizione militare dagli Stati Uniti. In realtà, la pressione curda, da una parte, e l’alleanza sciita di Assad con Hezbollah e Iran, dall’altra, sono le principali cause dell’indebolimento dei tagliagole dell’ISIS. Uno scenario che si sta riproponendo anche in Iraq con l’avanzata delle milizie sciite verso Mosul, attraverso la conquista di Tikrit.

Così accade che il Segretario di Stato USA, John Kerry, nel corso di un’intervista concessa alla CBS, abbia dovuto ammettere quello che per mesi i media intenzionali, con qualche rara eccezione, hanno tentato di nascondere: Assad non si può far cadere, è forte, controlla una parte importante del territorio e senza di lui non si può raggiungere alcun accordo. Dunque gli Stati Uniti dovranno negoziare con il presidente siriano per porre fine alla crisi, che entrata nel suo quinto anno.

Fallito il tentativo di far cadere in maniera violenta Assad, così come è accaduto in passato con Saddam Hussein in Iraq e con Mu’ammar Gheddafi in Libia, gli Stati Uniti sono costretti a cambiare strategia e ammettono che alla fine dovranno negoziare. «Siamo sempre stati disposti al negoziato, nel contesto del processo di Ginevra», ha dichiarato Kerry durante l’intervista. Niente di più falso. La Casa Bianca ha trascorso questi anni ad alimentare la violenza nel paese, finanziando i gruppi armati e fornendo loro supporto logistico e armamenti di qualunque tipo. Quegli aiuti hanno contribuito a creare il terrore e a rafforzare sigle come lo Stato Islamico e i qaedisti del Fronte al –Nusra.

Kerry nella sua intervista ha affermato che Assad fino a oggi è stato restio a negoziare. Anche questa affermazione è falsa, giacché sia l’opposizione armata che politica si sono sempre rifiutati di sedersi al tavolo con il presidente siriano. Un’opposizione frammentata e spesso lacerata da lotte interne, con leader che cambiavano ogni mese, senza alcun collegamento con la popolazione e le comunità locali. Con chi avrebbe dovuto negoziare Damasco? Chi ha seguito le cronache di questi ultimi anni, ha dovuto fare i conti con personaggi che non mettevano piede in Siria da tempo, leader politici abituati a vivere in residenze dorate, nelle capitali europee o del Golfo, pagati a suon di dollari dagli Usa e dai suoi alleati.

Anche l’inviato dell’Onu in Siria, Staffan De Mistura, ha dovuto prendere atto di quanto fosse difficile trovare un interlocutore serio in seno all’opposizione siriana, frantumata e sempre più litigiosa. Lo stesso De Mistura, creandosi non pochi nemici dentro il Palazzo di Vetro, ha ammesso che Assad ha fornito ampia disponibilità nel trovare soluzioni politiche ed esperimenti in grado di far silenziare le armi e la violenza. Certamente Kerry non può continuare a fare il furbo: gli Stati Uniti non possono invocare il negoziato con la Siria e, allo stesso tempo, riversare milioni di dollari nelle casse dei ribelli moderati e delle forze politiche di opposizione. Quei soldi, come è noto, rischiano di finire nelle mani dei gruppi jihadisti e nei conti correnti di loschi personaggi a cui in fondo poco importa del bene della Siria, anziché essere utilizzati per alleviare il dolore di una popolazione stremata da quattro anni di conflitto e a combattere seriamente il terrorismo.

Gli Stati Uniti, quindi, puntano al negoziato con Assad e lavorano con l’opposizione moderata, a partire dalla Coalizione Siriana, per trovare una soluzione alla crisi. Proprio la Coalizione, ed è la sorpresa degli ultimi giorni, ha cambiato rotta all’improvviso e ha deciso che non ci sono più le condizioni per chiedere al presidente siriano di farsi da parte, almeno in questa fase.

Senza consenso e schiacciata dall’onda islamista, la Coalizione ha fatto retromarcia nell’estremo tentativo di sopravvivere soprattutto a se stessa. Il presidente Khaled Khoja ha illustrato la nuova strategia: «Insistiamo nell’obiettivo di far cadere Assad. Ma non è necessario avere questa condizione all’inizio del processo, sarà necessario alla fine». Insieme al Comitato di Coordinamento Nazionale (opposizione non in esilio), la Coalizione chiede dunque la creazione di un governo di transizione e afferma che «il principale obiettivo del negoziato con Assad è un sistema civile e democratico che garantisca uguali diritti e doveri».

Per il governo di Damasco, in attesa della campagna militare di primavera, è un riconoscimento significativo, un passo fondamentale per ritornare in quel consesso internazionale che in questi anni ha indegnamente espulso la Siria, alimentando un conflitto che ha generato instabilità e violenza in tutta la regione, i cui effetti si fanno sentire anche nel cuore dell’Europa e nella sponda sud del Mediterraneo.

 

Twitter@AleAramu

 

Alessandro Aramu (1970). Giornalista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013) e Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). Fa parte del Centro Italo Arabo Assadakah ed è vicepresidente nazionale del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria.

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