Guerra nel Nagorno Karabagh: la Turchia aldilà delle solite menzogne


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(BRUNO SCAPINI) – Siamo sempre alle solite? Questa è la domanda che d’istinto potremmo porci nell’apprendere la notizia dell’ultimo feroce attacco militare sferrato di sorpresa il mattino del 27 settembre scorso dall’Azerbaijan al Nagorno Karabagh e tuttora in corso.

Ancora una volta, la dirigenza politica di Baku ha dato prova della propria sconsiderata condotta contraria a una soluzione fondata sul buon senso per porre fine al conflitto che ormai da quasi trent’anni si trascina lasciando il popolo armeno del Karabagh sospeso in un deleterio ibrido di guerra.

I fatti bellici sono noti: scontro tra unità corazzate, bombardamenti, vittime civili e militari da entrambe le parti e accuse reciproche. Sembrerebbe, se non fosse per il suo drammatico crescendo in violenza, lo stesso scenario di sempre, da quando cioè, dopo la dichiarazione di indipendenza della Repubblica dell’Artsakh nel 1991 –  atto peraltro politicamente ineccepibile e giuridicamente irrefragabile – l’Azerbaijan ha avviato una strategia di intimidazione con lo scopo di tenere sotto scacco con ripetute  violazioni del “cessate-il-fuoco” l’Armenia e lo stesso Nagorno Karabagh.

Sulle responsabilità di questi attacchi mai si dubita da parte azera. Sarebbero sempre i soliti armeni ad attaccare per primi. Una menzogna portata avanti spudoratamente dall’elite politica di Baku e puntualmente ripresa dai “fratelli turchi” e da quanti in Occidente si ostinano a non vedere nella Turchia di Erdogan un Paese proteso oggi ad un protagonismo a tutto campo. Che questi attacchi non siano riconducibili all’iniziativa armena è tra l’altro dimostrato non solo dalla dinamica degli scontri sul terreno, con iniziale occupazione di aree da parte azera e successivo loro recupero operato dalle unità armene in sede di controffensiva, ma sopratutto dall’assenza di un concreto interesse di Yerevan a modificare lo stato di fatto del conflitto con una riaccensione di atti bellici che a nulla approderebbero se non a suscitare inutili rischi capaci di compromettere il risultato raggiunto nel 1994 con l’accordo di “cessate-il-fuoco!” di cui la allora neonata Repubblica dell’Artsakh era stata parte firmataria accanto all’Azerbaijan e all’Armenia. Una circostanza, quest’ultima, che peraltro è stata successivamente disconosciuta da Baku, con un ostinato rifiuto ad accettare il Karabagh quale parte necessaria e interessata al negoziato di pace. Se, dunque, la verità oggi, come sempre prima, risulta ancora una volta intrisa di ipocrisia, non è da meno la condotta tenuta dall’OSCE, sede alla quale entrambe le parti guardano per il mantenimento di un processo di pace, ma con un dialogo in sofferenza  per via del colpevole immobilismo degli stessi mediatori.

Questi, ostinati nel proporre una pace “a punti” ( i c.d. Principi di Madrid ) pretendono, con assenza di ragionevole realismo, di imporre alle parti una soluzione fondata sulla inconciliabilità del principio dell’autodeterminazione di un popolo con quello del rispetto dell’integrità territoriale dell’altro. La mancanza di coraggio nel dichiarare effettivamente la universalità del principio di autodeterminazione dei popoli e, dunque, la legittimità dell’aspirazione delle genti del Karabagh all’indipendenza è, dunque, la causa prima del fallimento negoziale. Un atteggiamento disfattista in fondo che si palesa con crescente evidenza nell’ossequio che l’Occidente riserva agli interessi legati alle fonti energetiche azere e a una Turchia dispensatrice imprevedibile di ricatti e rappresaglie.

Ma se le motivazioni dell’ultimo attacco azero, come le stesse modalità della sua esecuzione, potrebbero ricondursi facilmente ad un identico copione del dramma senza fine a cui da anni assistiamo, una grave novità tuttavia traspare da questo più recente episodio: la presenza di una Turchia pronta a sostenere Baku non solo a parole, con mirate dichiarazioni ad effetto rilasciate a scopo intimidatorio, bensì anche con forniture di concreti aiuti militari. Non solo, ma un elemento in questo quadro risulterebbe particolarmente allarmante: il trasferimento che la Turchia, secondo diverse attendibili fonti internazionali, avrebbe operato di un consistente numero di jihadisti dalla Siria all’Azerbaijan.

Non può sfuggire a questo riguardo la estrema pericolosità dell’iniziativa. Contestualizzata, infatti, nel più ampio corso politico recentemente intrapreso dalla leadership ankariota, di affermarsi cioè nello scacchiere mediorientale e del Mediterraneo con un ruolo decisamente più assertivo, la nuova mossa della Turchia preluderebbe ad una destabilizzazione del Caucaso quale parte di un progetto di ben più vasta portata, e già in atto, inteso ad estendere la propria influenza aldilà dei confini tradizionalmente imposti da ben due guerre mondiali. Passo dopo passo, gradualmente, cogliendo le opportunità offerte da un’Europa sempre più ripiegata sulle sue stesse debolezze, la Mezzaluna avanza e si porta con arroganza e sdegno in Paesi dove solo alcuni anni prima una sua presenza militare sarebbe stata assolutamente inimmaginabile.

E’ il nuovo atteggiamento della Turchia, dunque, la grande e pericolosa novità di questo ennesimo attacco azero alla Repubblica dell’Artsakh. Una Turchia ingombrante che, avvalendosi dell’omertoso silenzio di un’Europa senza più valori e incapace di orientarsi in un mondo in transizione, riesce impunemente ad imporre il proprio “diktat” trasformando ogni crisi in opportunità a proprio favore. La attuale politica  intrattenuta da Ankara in Siria, in Libia, in Africa, a Cipro e nei rapporti con la Grecia dovrebbe, infatti, indurci a guardare oltre il fatto in sé per scorgere nelle sue direttrici i prodromi di una strategia tesa a una prepotente espansione. Sembra che la Storia debba ripetersi. Già una volta la debolezza  degli europei ebbe a trascinare il mondo nella peggiore delle guerre che la Storia ricordi: non avevano saputo arginare la dilagante tracotanza della Germania nazista.

Oggi c’è da sperare che a qualcuno, imparando la lezione dal passato, non sfugga il pericolo rappresentato dalla attuale leadership turca tutta protesa a profittare delle instabilità regionali per nutrirsi di esse e crescere in potenza. Ed è in questa prospettiva, non del tutto remota invero, che il Caucaso rischierebbe di divenire, qualora l’Occidente dovesse fallire nel contenere i furori debordanti di Erdogan, la prossima nuova area di uno scontro geopolitico  capace di portare le tensioni storicamente già esistenti ad un punto di inevitabile rottura. Una previsione assolutamente da scongiurare, dunque. Ma da tenere tuttavia bene a mente onde evitare che la guerra per il Nagorno Karabagh non si trasformi, per la sua centralità nell’area, in un detonatore di un conflitto di ben più vaste proporzioni in cui la cristiana Armenia avrebbe molto da perdere, ma la Turchia, appena risvegliatasi dal lungo sonno panturanico, tutto da guadagnare. E questa volta tentando di sottomettere la vecchia e stanca Europa non più con un costoso quanto inutile nuovo assedio di Vienna, bensì tramite la ben più facile e sicura scorciatoia offerta dalle lucrose condotte energetiche.

 

Bruno Scapini è nato a Roma nel 1949. Conseguita la laurea in Scienze Politiche presso l’Università La Sapienza, entra nella carriera diplomatica ricoprendo una molteplicità di rilevanti incarichi in Italia e all’estero. Più volte Console Generale, svolge importanti funzioni presso varie Ambasciate italiane e, da ultimo, quale Ambasciatore d’Italia in Armenia. Lascia la carriera diplomatica nel 2014, ma continua a occuparsi di politica internazionale tenendo conferenze e scrivendo articoli di analisi geopolitica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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