I colloqui di Ginevra c’entrano poco con l’attentato a Damasco: la verità è che Daesh ha paura


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(Alessandro Aramu) – Non è la prima volta che i gruppi jihadisti minacciano di bruciare Damasco. Lo hanno fatto in più occasioni, alternandosi in una macabra strategia del terrore. L’attentato a sud della capitale nei pressi del mausoleo sciita di Sayyida Zeinab è solo l’ultimo di una lunga scia di sangue. Quasi sempre a farne le spese è stata la popolazione civile. Daesh, che ha rivendicato l’attentato, questa volta ha colpito un luogo sacro, e dunque simbolico, per lo sciismo: il mausoleo di Sayyida Zeinab, luogo di sepoltura della nipote del profeta Maometto e meta di pellegrinaggio per gli sciiti, non solo siriani.

Da Teheran, dall’Iraq e dal Libano, malgrado la guerra che dilania il paese da cinque anni, i bus dei fedeli non hanno mai smesso di arrivare. Luogo sacro e al tempo stesso roccaforte militare degli alleati del governo di Damasco, come Hezbollah, che hanno impedito che quest’area finisse sotto il controllo delle milizie sunnite. Una presenza ben visibile anche nell’ufficio del capo della sicurezza, dove le foto dei leader dell’asse della resistenza campeggiano uno al fianco dell’altro: l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e Imad Mughniyeh, che del movimento libanese era lo stratega militare prima che gli israeliani lo eliminassero nel 2008.

Se c’è un luogo dove si può percepire l’odio tra gli sciiti e i sunniti è proprio il mausoleo di Sayyida Zeinab. Davanti al sarcofago della giovane donna, gli uomini esprimono ancora oggi una rabbia che trae origine dal massacro di Karbala del 680 d.c., quando il venerato imam Hussein ibn Ali venne ucciso insieme a 72 suoi familiari. Secondo gli sciiti, ad Hussein, figlio di Alì (rispettivamente nipote e genero di Maometto) sarebbe spettata la successione al profeta nella guida del neonato Islam, ai loro occhi usurpata invece dai sunniti. Proprio a questo episodio si fa risalire la definitiva scissione tra i due grandi rami del mondo musulmano.

L’attentato di Daesh a Damasco ha voluto colpire quanto di più sacro c’è per i sciiti e lo ha fatto con un’azione militare imponente, simbolica e strategica allo stesso tempo. Il fatto che l’attentato sia avvenuto in concomitanza con i colloqui di pace di Ginevra tra il governo siriano e l’opposizione è solo un caso. La lettura politica di ogni azione terroristica compiuta dagli uomini del sedicente Califfato piace molto agli analisti e agli esperti di geopolitica ma attribuisce un ruolo e un’intelligenza che leadership di Daesh, essenzialmente militare, non ha.

I tagliagole sono esperti in altro: in traffico di armi, di petrolio e persino di sostanze stupefacenti. Sanno fare affari e organizzare un reclutamento su scala mondiale che non ha precedenti nella storia del terrorismo e la loro avanzata – sempre dal punto di vista militare – è la combinazione di una serie di fattori, anche fortunosi, che poco hanno a che fare con la capacità politica. Ed è per questa ragione che oggi Daesh vive il momento di maggior debolezza da quasi due anni a questa parte. L’attentato di Damasco è una prova di forza e al contempo di disperata debolezza. L’esercito siriano avanza su tutti i fronti, grazie al martellamento incessante dei raid aerei russi e agli scarponi di Hezbollah e dei pasdaran iraniani.

Un’avanzata che ha messo con le spalle al muro Daesh e tutti i gruppi armati di opposizione, jihadisti e non. Significativo, in questo senso è il successo dell’esercito siriano nella campagna settentrionale del Governatorato di Dara’a, dove è stata conquistata la città strategica di Sheikh Miskeen e una serie di colline lungo la strada che conduce a Nawa. Per la prima volta, al fianco dell’Esercito di Liberazione della Palestina, i governativi sono entrati nella città strategica di Kafr Shamis dopo una violenta battaglia con l’Esercito Siriano Libero e i qaedisti di Jabhat al-Nusra.

A  Dar’a nel 2011 nacque la rivolta da cui ha preso origine la guerra in corso. Anche questo un luogo simbolico, spesso protetto da Israele che ha considerato il governatorato in mano ai ribelli una sorta di zona cuscinetto di protezione per il Golan occupato e per le proprie frontiere. Difficile dire se si tratti di un’offensiva militare su larga scala ma è certamente il segno che l’opposizione armata in tutto il paese è costretta a ripiegare e l’opposizione politica che detta condizioni a Ginevra dovrebbe prendere atto di ciò. Ma questa è un’altra storia.

 

Twitter@AleAramu

Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria(Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia  – Centro Italo Arabo  e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.

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