I curdi non devono fare il gioco sporco dell’Europa


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(Ayub Nuri. Rudaw) – Molti paesi europei hanno annunciato il loro sostegno alla Regione autonoma del Kurdistan iracheno contro lo Stato islamico. Ministri degli Esteri ed esponenti politici hanno visitato a turno Erbil, promettendo aiuti militari ai peshmerga.

È importante che i curdi ricevano una simile attenzione internazionale perché impegnati nella lotta contro gli estremisti islamici, ma occorre ricordarne il movente, ovvero il timore che un giorno non troppo lontano la guerra bussi alle porte di qualche potenza occidentale. Politici ed esperti militari europei e statunitensi hanno aperto gli occhi sulla minaccia dell’ISIS e sanno ormai che molti integralisti che combattono in Siria e Iraq provengono dalle loro terre e che si spostano facilmente sullo scacchiere mediorientale. L’Europa in particolare dunque intende combatterli ora che sono concentrati a Mosul e Raqqa, ma vale la pena osservare che per farlo spera di poter usare i curdi, un po’ come è successo contro il regime di Saddam Hussein. Solo che questi giorni nessuno invia soldati o esperti militari sul campo, optando per il tentativo di servirsi a distanza dei combattenti curdi, che difendono le loro terre dagli sgherri dell’ISIS.

Se la comunità internazionale è davvero interessata a sconfiggere l’integralismo islamico dovrebbe parlare con i rappresentanti politici di paesi come l’Iraq, la Siria (in quanto vittime) e soprattutto delle monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in primis (in quanto taciti spettatori nella migliore delle ipotesi). Inoltre l’Europa e gli USA farebbero bene a porre maggiore attenzione agli integralisti che lasciano liberamente circolare a New York come a Londra, Amsterdam, Parigi o Stoccolma. Non è da escludere infatti che vi siano più integralisti in questi paesi che non a Mosul, personaggi armati di barbe e bandiere nere che protestano sfidando la polizia e gridando slogan antisemiti, anticristiani e antioccidentali, fino a promulgare la distruzione degli stessi paesi in cui sono andati a vivere. Se possono farlo è in nome della libertà di espressione e di culto che tanto disprezzano.

Tutt’altro che trascurabile inoltre è la vicina Turchia. Nei giorni scorsi il primo ministro Ahmet Davutoğlu, leggendo la premessa al programma del 62° governo turco, ha indicato la soluzione della questione curda come uno dei punti fondamentali. Il “processo di soluzione”, ha aggiunto Davutoğlu (preferendo questa all’espressione “processo di pace”), è un tema chiave per la crescita della Turchia e il nuovo governo intende portare avanti il “progetto di fraternità” iniziato in precedenza. Vale la pena notare che la questione curda fa parte della sezione del programma intitolata “Democrazia avanzata”, come se fosse un problema interno alla società turca. Ankara sembra dunque proseguire per la sua strada, determinata a escludere a priori non solo la possibilità di accordo su una qualche forma di autonomia amministrativa ma anche una prospettiva politica sulla questione, da sempre affrontata quasi solo sul terreno militare. Lo dimostra il fatto che le trattative con il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) Abdullah Öcalan siano sempre state condotte da funzionari dell’Organizzazione per la sicurezza nazionale (Mit) e non, come sarebbe lecito aspettarsi, da esperti politici. Un aspetto che rischia di provocare un ulteriore focolaio di tensione nella regione, con i cartelli del jihad alle porte.

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Traduzione e sintesi per Arab Press di Carlotta Caldonazzo

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