In Karabakh l’umanità è abolita


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(SIMONE ZOPPELLARO) – Scrivo mentre, uno dopo l’altro, stanotte, i bombardamenti si succedono su Stepanakert, su Shushi e sugli altri piccoli centri di un territorio, quello del Nagorno-Karabakh, che ha in tutto meno di 150.000 abitanti. Proprio come la città dove sono nato, Ferrara. Ora, immaginate una città come Ferrara, appunto, isolata, stremata, distrutta, trasformata in un macabro poligono di tiro che non si riesce a arrestare.

Bombe a grappolo piovono sulla popolazione, come ha denunciato ieri Amnesty International, insieme a droni suicidi (testati per la prima volta al mondo dall’Azerbaijan proprio qui, già nell’aprile 2016), missili, razzi. I pochi abitanti rimasti, in una città spettrale, vivono stipati nei rifugi come topi. Le poche auto, di notte, viaggiano a fari spenti per non essere colpite. Gli allarmi e le sirene risuonano ovunque, risuonano continui. Assordano, non fanno dormire.

Nessuno, eppure, fuori da quest’angolo di mondo abbandonato da dio, da ogni logica e da ogni morale, sembra accorgersene. Ogni umanità è abolita. È la profezia di un inferno in terra, concretizzata, che mira a togliere ogni barlume di vita e di speranza a chi è rimasto in vita. Uomini da tramutare in manichini, in automi, in spettri, in semplici bersagli da colpire a piacimento. Da disumanare e, quindi, uccidere.

Come mi racconta Daniele Bellocchio che, insieme al collega giornalista Roberto Travan, è uno dei pochi testimoni al mondo di questa carneficina – di questa nuova Sarajevo ignorata dal mondo – il cimitero della città è pieno di file di fosse vuote pronte ad accogliere i nuovi cadaveri. Che arriveranno. Senza ombra di dubbio. Fonti armene vicine al governo parlano già, in via informale, di migliaia di morti. Morti ancora da raccogliere e seppellire, dall’uno e dall’altro lato della linea di contatto fra Azerbaijan e Karabakh.

Ma oggi tutto il Karabakh, non solo il confine che divide i due eserciti, è una no man’s land, una terra di nessuno. Dove ogni umanità è abolita, bandita da una legge spietata che, in nome dello strapotere militare e politico della Turchia e dell’Azerbaijan, ma anche dell’indifferenza di tutto il resto del mondo, esercita il suo dominio di morte sulle donne e sugli uomini che hanno avuto in destino di nascere in questa terra.

Vi sto raccontando, lo so, di una guerra che non avrete forse mai sentito nominare, e queste poche parole non bastano per raccontare un conflitto trentennale, nato prima della dissoluzione dell’Urss, ma con radici assai più antiche. Ma non è questo che mi preme e importa. Come non mi interessa rispondere alla logica feroce e disumanizzante della geopolitica che, partendo da uno scacchiere astratto e inesistente, riduce gli uomini a pedine di un gioco.

Non c’è tempo per questo, per disquisire se, nell’impasse giuridico internazionale alla base del conflitto abbia priorità l’inviolabilità dei confini, rivendicata dagli azeri, o l’autodeterminazione dei popoli, a cui si appellano gli armeni. Qui l’umanità è il suo nadir, ha imboccato un vicolo cieco che va oltre ogni ragione, stretta tra lacerti di paura, rabbia, ferocia.

Un cessate il fuoco non ha colore o bandiere. Rompere l’assedio di Stepanakert, ridare un barlume di vita e di speranza a queste esistenze sacrificabili, spinte oltre i limiti della sopportazione umana, è e dev’essere una priorità per il mondo. La politica, i media, le chiese, le associazioni e la società civile, in Italia e in Europa, devono muoversi. Devono dare voce agli assediati, ai pochi testimoni, alla nostra coscienza. Prima che anch’essa, una volta per sempre, sia abolita.

 

Foto: un salone usato per matrimoni e feste, distrutto dalle bombe. Talish, Nagorno-Karabakh, maggio 2016

 

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