La crisi siriana, il ruolo del Mediterraneo e il neocolonialismo


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(Ammar al-Moussawi) – Trasformare la Siria in un focolaio di terrorismo costituisce una minaccia anche per l’Europa. Cosa potrebbe accadere se questi terroristi tornassero nei loro paesi? Non sarebbero forse una minaccia diretta? Come possiamo permettere che questo fenomeno vada avanti?

Viviamo nel Mediterraneo, luogo di incrocio di popoli, culla del vecchio mondo, siamo vicini da migliaia di anni. Abbiamo condiviso pezzi di storia e ancora oggi abbiamo molto in comune. Ciò che auspichiamo è che il Mediterraneo sia un punto di incontro e non un luogo di scontro. Questo bacino, infatti, ha una preziosa funzione: sviluppare legami e visioni comuni su determinate questioni. Sebbene possano presentarsi motivi di scontro, è bene approcciarsi al problema con l’intenzione di trovare un punto di incontro. Crediamo nella diversità e, pertanto, siamo convinti che la varietà culturale e religiosa non possa mai costituire un motivo di divergenza perché siamo convinti che popoli di diversa religione, lingua e colore possano vivere pacificamente. Questa può essere la vera risposta al terrorismo e ai fondamentalismi.

Nonostante il Mediterraneo raccolga tale ricchezza culturale, i numeri descrivono negativamente il rapporto tra il sud e il nord del mondo, il primo sempre più povero e il secondo sempre più ricco. Crescono le disuguaglianze tra l’Europa e altre aree geografiche, come l’Africa e il Medio Oriente. Queste differenze ci spingono a indagare alla radice del problema.

Certamente, non è un fattore nuovo quello della disuguaglianza; è una questione complicata che sussiste da quando l’Europa ha colonizzato alcuni paesi mediorientali. Il colonialismo è stato sempre giustificato con la pretesa di aiutare le “persone meno civili e meno avanzate” affinché potessero perseguire la strada del progresso. Dopo mezzo secolo di colonialismo, abbiamo realizzato che sussistono sempre gli stessi problemi e il livello di arretratezza è sempre uguale. Nonostante ci siano stati proposti progetti di rinascita nazionale, percorsi di costruzione democratica, la presenza di focolai nella regione, fino all’avvento della “primavera araba”, rivela il fallimento della politica di cooperazione e di sviluppo.

All’inizio abbiamo percepito una grande speranza per costruire il futuro, ma, a poco a poco, mentre scoprivamo che questi avvenimenti non conducevano a un reale cambiamento, la stessa speranza svaniva. Al contrario, percepivamo più instabilità, più preoccupazione e più caos. Questo potrebbe portare verso un altro fallimento.

Recentemente, diversi mezzi di informazione libanesi e arabi, riferendosi a una notizia della stampa americana, hanno pubblicato una mappa segreta in cui appare l’intenzione di dividere la regione. Secondo la mappa, l’Iraq verrebbe diviso in tre stati, la Siria in quattro, l’Arabia Saudita in tre o quattro, e così anche l’Egitto e la Libia. Stiamo vivendo una nuova fase con nuove preoccupazioni. Ci sono nazioni che vivono guerre, come la Siria o l’Iraq, e altre che affrontano forti turbolenze, come l’Egitto. Anche in Tunisia, in Sudan e nello Yemen la situazione è difficile. Dovremmo interrogarci sui motivi di questo fallimento, sulle responsabilità del nord del mondo e sul motivo per cui il sud sia costretto ad accollarsi da solo le responsabilità di questo fallimento.

In Medio Oriente il colonialismo mostra un volto prevalentemente economico: infatti, la priorità dell’Europa e degli Stati Uniti è il continuo flusso del petrolio.

Non è un caso che uno dei più fedeli amici dell’Occidente sia l’Arabia Saudita, il Paese più ricco al mondo e dalle grandi risorse petrolifere. La monarchia saudita ha interessi diretti nella regione e ricopre un ruolo di primo piano nella crisi siriana. Con questo Paese gli Stati Uniti fanno affari vendendo armi per centinaia di miliardi di dollari. Nonostante la sua ricchezza, al suo interno sono presenti grosse contraddizioni: più di due milioni di sauditi vivono nelle baracche e le infrastrutture sono ancora allo stato primitivo. Nel 2011 un’alluvione ha provocato una catastrofe umanitaria. Come è possibile che uno Stato di questo tipo, con tali risorse finanziarie, subisca una crisi di questa portata? Perché gli introiti del mercato del petrolio non vengono investiti in infrastrutture, istruzione o case?

La verità è che si guarda alla regione come fonte di risorse preziose e il vero interesse riguarda l’acquisto di materie prime a prezzi convenienti. La crisi economica e finanziaria dell’Europa ha posto la necessità di rivedere le relazioni economiche con i paesi mediorientali allo scopo di acquistare petrolio a un prezzo più basso rispetto al passato e materie prime a un costo minore rispetto ai prezzi di oggi. Invece, i prodotti fatti con le nostre materie prime ci vengono venduti decine e decine di volte più cari di quanto noi li vendiamo in Occidente.

In Europa si discute molto dell’immigrazione e delle sfide che questo problema pone, in particolar modo nel campo della sicurezza e dell’ordine pubblico. Cosa dovremmo dire, allora, del Libano che ha a che fare con un milione di sfollati siriani in un Paese con tre o quattro milioni di abitanti?

Queste cifre dimostrano che, allo stato attuale, un quarto della popolazione libanese è costituito dagli sfollati siriani. La comunità internazionale non adempie ai suoi obblighi, le tante promesse non si traducono in una concreta realizzazione. Gli aiuti alimentari, medici e l’assistenza relativa ad altri settori – l’educazione dei bambini e il problema abitativo – purtroppo non riescono a fare fronte all’emergenza e non sempre arrivano a destinazione. Il Libano non è più in grado di trovare una soluzione a questa catastrofe umanitaria. Se gli Stati Uniti dovessero aggredire la Siria, e il problema non è ancora scongiurato, il Libano sarà costretto a farsi carico di un altro milione di rifugiati. A quel punto, i rifugiati siriani costituiranno la metà della popolazione del Libano. Ciò rappresenta un grosso limite a livello economico, sociale e di sicurezza, soprattutto perché i profughi hanno provenienze diverse e, al loro interno, vi sono gruppi che possono “trasferire” il conflitto dalla Siria al Libano.

In ogni caso, questa crisi è diventata incalcolabile per la sua gravità. Secondo Hezbollah la soluzione radicale è favorire una risposta politica alla crisi siriana. Chi trae profitto da questa crisi, la aggrava, e perpetua questo conflitto devastante che non gioverà a nessuno. La via d’uscita è costituire un tavolo di dialogo con tutte le componenti della Siria senza precondizioni.

Solo allora sarà possibile trovare una risposta efficace per risolvere questa crisi, perché presumiamo che almeno il trenta per cento dei rifugiati siano disposti a tornare nel loro Paese nel caso in cui la guerra in Siria finisca. (parte 2. fine)

 

 

Ammar al-Moussawi (1962). Libanese, nel 1996 è diventato deputato presentandosi alle elezioni con la lista di Hezbollah. Nel 2000 è stato rieletto. Dal 2009 è Responsabile delle Relazioni Internazionali del Partito.

 

 

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